COPERTINA. ARTHUR SCHNITZLER: NOTA. L’AUTORE. DOPPIO SOGNO. PRIMO. SECONDO. TERZO. QUARTO. QUINTO. SESTO. SETTIMO. NOTA SU «DOPPIO SOGNO» DI GIUSEPPE FARESE. COPERTINA. ARTHUR SCHNITZLER: Doppio sogno. Novella. A CURA DI GIUSEPPE FARESE. ADELPHI EDIZIONI. (Pagine: 131). titolo originale: Traumnovelle. © 1931 S. FISCHER VERLAG AG BERLIN. RENEWED 1959 BY HEINRICH SCHNITZLER. © 1977 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO. Prima edizione gli Adelphi: maggio 1998. Nona edizione gli Adelphi: novembre 1999. ISBN 88-459-1379-1. In copertina: Elisabeth Bergner in un’inquadratura del film Fräulein Else, di Paul Czinner (1929), tratto dal romanzo di Schnitzler. NOTA. «Un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo» nella vita di un medico e di sua moglie, giovani, belli e chiusi in un’ovattata felicità domestica. Da questa storia di smarrimenti paralleli Stanley Kubrick ha tratto il film Eyes wide shut. L’AUTORE. Arthur Schnitzler (1862-1931) ha dedicato romanzi, racconti e commedie all’esplorazione del mondo viennese di fine Ottocento e inizio Novecento. Di lui Adelphi ha pubblicato anche Il ritorno di Casanova (1975), Fuga nelle tenebre (1981), Gioco all’alba (1983), Beate e suo figlio (1986), La signorina Else (1988), La piccola commedia (1996) e Novella dell’avventuriero (1999). Composto fra il 1921 e il 1925, Doppio sogno apparve nel 1926. DOPPIO SOGNO. PRIMO. «Ventiquattro schiavi mori spingevano remando la sfarzosa galera che doveva portare il principe Amgiad al palazzo del califfo. Ma il principe, avvolto nel suo mantello di porpora, se ne stava solo, sdraiato in coperta, sotto l’azzurro cupo del cielo notturno disseminato di stelle ed il suo sguardo...». La piccola aveva letto fin lì ad alta voce; ora, quasi all’improvviso, le si chiusero gli occhi. I genitori si guardarono sorridendo, Fridolin si chinò su di lei, le baciò i capelli biondi e chiuse il libro che si trovava sulla tavola non ancora sparecchiata. La bambina lo guardò come sorpresa. «Sono le nove», disse il padre «è ora di andare a letto». E poiché anche Albertine si era accostata alla bambina, le mani dei genitori si incontrarono sulla fronte amata mentre i loro sguardi si scambiavano un tenero sorriso, che non era rivolto più solo alla bambina. Entrò la governante e disse alla piccola di dare la buona notte ai genitori; lei si alzò ubbidiente, diede un bacio al padre ed alla madre e si lasciò condurre docilmente dalla signorina fuori della stanza. Fridolin e Albertine, ora finalmente soli sotto il chiarore rossastro della lampada, ebbero a un tratto fretta di riprendere la conversazione cominciata prima di cena, su quanto era accaduto durante il ballo in maschera il giorno precedente. Era stata quell’anno la loro prima festa da ballo e avevano deciso di parteciparvi quasi alla fine del carnevale. Quanto a Fridolin, appena entrato in sala era stato salutato come un amico atteso con impazienza da due maschere in domino rosso che non era riuscito a identificare, sebbene esse conoscessero con sorprendente precisione ogni specie di storielle dell’epoca in cui era studente e praticante in ospedale. Si erano allontanate dal palco in cui lo avevano invitato con insinuante gentilezza, assicurando che sarebbero tornate poco dopo e senza costume, ma erano restate via così a lungo che Fridolin, impazientitosi, aveva preferito scendere in platea sperando d’incontrare di nuovo quelle due ambigue figure. Ma per quanto si sforzasse di guardarsi intorno, non era riuscito a scorgerle da nessuna parte; al posto loro qualcun altro si era attaccato, di sorpresa, al suo braccio: la moglie, appena liberatasi da uno sconosciuto dall’aria malinconica e blasé e dall’accento straniero, palesemente polacco, che l’aveva dapprima affascinata, poi all’improvviso offesa e addirittura spaventata con una insolente parolaccia. Così marito e moglie, contenti in fondo di essere sfuggiti a un banale e deludente scherzo di carnevale, si erano trovati ben presto al buffet tra ostriche e champagne, come due amanti fra altre coppie innamorate: avevano conversato divertiti, come se si fossero conosciuti solo allora, gettandosi in una commedia della galanteria, del diniego, della seduzione e della condiscendenza; e, dopo una veloce corsa in carrozza attraverso la bianca notte invernale, si erano abbandonati a casa l’uno nelle braccia dell’altra, amandosi ardentemente come non accadeva più da tempo. Un’alba grigia li aveva svegliati troppo presto. La professione imponeva al marito di essere già di buon’ora al capezzale dei suoi malati; i doveri di madre e di donna di casa non fecero riposare più a lungo neppure Albertine. Le ore successive erano così trascorse nella monotonia dei loro consueti impegni e occupazioni, mentre la notte passata, l’inizio come la conclusione, era impallidita nel ricordo. Solo ora, compiuto il lavoro quotidiano, poiché la bambina era andata a letto e non si aspettavano più di venire comunque disturbati, riaffiorarono i fantasmi del ballo in maschera, il melanconico sconosciuto e le figure in domino rosso; e quegli avvenimenti irrilevanti furono ad un tratto magicamente e penosamente avvolti dall’ingannevole parvenza di occasioni perdute. Si scambiarono domande ingenue eppure insidiose e risposte maliziose ed ambigue; a nessuno dei due sfuggì che l’altro non era in fondo sincero e si sentirono, così, inclini a una moderata vendetta. Esagerarono nel valutare l’attrazione che gli sconosciuti partners del ballo in maschera avevano esercitato su di loro, si beffarono, negandoli, dei moti di gelosia che lasciavano vicendevolmente trapelare. Tuttavia dalla leggera conversazione sulle futili avventure della notte scorsa finirono col passare a un discorso più serio su quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura, e parlarono di quelle regioni segrete che ora li attraevano appena, ma verso cui avrebbe potuto una volta o l’altra spingerli, anche se solo in sogno, l’inafferrabile vento del destino. Sebbene la loro unione si fondasse su una perfetta compenetrazione di sentimenti e di idee, sapevano tuttavia che ieri li aveva sfiorati, e non per la prima volta, un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo; trepidamente, tormentandosi, cercarono con sleale curiosità di carpirsi confessioni e, concentrandosi con angoscia sulla loro vita intima, ognuno ricercò in sé qualche fatto anche insignificante, qualche avvenimento anche inconsistente, che potesse esprimere l’ineffabile e la cui sincera confessione riuscisse a liberarli da una tensione e da una diffidenza che cominciavano a diventare a poco a poco insopportabili. Albertine, forse perché, fra i due, era la più impaziente, la più sincera o la più indulgente, trovò per prima il coraggio di fare una esplicita dichiarazione; e con voce un po’ esitante domandò a Fridolin se si ricordava di quel giovane che la scorsa estate sulla costa danese era stato seduto una sera con due ufficiali al tavolo vicino al loro, aveva ricevuto un telegramma durante la cena e si era quindi rapidamente congedato dai suoi amici. Fridolin annuì. «Ebbene?» chiese. «L’avevo già visto la mattina» rispose Albertine «mentre saliva in fretta le scale dell’hôtel con la sua borsa gialla. Mi aveva osservata di sfuggita ma, fatti alcuni gradini, si fermò, si girò verso di me ed i nostri sguardi dovettero incontrarsi. Non sorrise, mi sembrò, anzi, che il suo volto si rabbuiasse, e lo stesso capitò a me, poiché ero agitata come non mai. Me ne stetti tutto il giorno trasognata sulla spiaggia. Se mi avesse chiamata così pensavo - non avrei potuto resistergli. Ritenevo di essere pronta a tutto; mi credevo pressoché decisa a sacrificare te, la bambina, il mio avvenire ed allo stesso tempo - puoi capirlo? mi eri più caro che mai. Proprio quel pomeriggio, devi ancora ricordartene, capitò che parlassimo di mille cose, anche del nostro comune futuro e della bambina, così intimamente come non accadeva più da tempo. Al tramonto eravamo seduti sul balcone quando lui passò; camminava lungo la spiaggia senza sollevare lo sguardo, e fui felice di vederlo. Tuttavia ti accarezzai la fronte e ti baciai i capelli e nel mio amore per te c’era allo stesso tempo tanta sofferta compassione. La sera ero bellissima, me lo dicesti anche tu, e avevo una rosa bianca nella cintura. Forse non fu un caso che lo straniero sedesse coi suoi amici vicino a noi. Non mi guardò, ma io mi baloccai con l’idea di alzarmi, andare al suo tavolo e dirgli: Eccomi, mio atteso amante - prendimi. In quel momento gli portarono il telegramma, lo lesse, impallidì, sussurrò alcune parole al più giovane dei due ufficiali e, sfiorandomi con uno sguardo enigmatico, lasciò la sala». «E poi?» domandò asciutto Fridolin quand’ella tacque. «Nient’altro. Il mattino seguente mi svegliai con una certa apprensione. Non so, né lo sapevo allora, se temevo di più che fosse partito o che potesse essere ancora là. Tuttavia quando non ricomparve neanche a mezzogiorno, tirai un sospiro di sollievo. Non farmi altre domande, Fridolin, ti ho detto tutta la verità. E poi anche tu hai avuto qualche avventura su quella spiaggia lo so». Fridolin si alzò, si mise a camminare avanti e indietro per la stanza, poi disse: «Hai ragione». Stava presso la finestra, il viso in ombra. «Di mattina», cominciò con voce velata, un po’ ostile «a volte anche molto presto, prima che ti alzassi, ero solito camminare lungo la riva allontanandomi dal paese; e sebbene fosse presto, sul mare brillava già un sole chiaro e forte. Da quelle parti, vicino alla spiaggia, c’erano, come sai, delle villette isolate, ognuna come un piccolo mondo a sé, alcune col giardino recintato da uno steccato, altre circondate anche solo dal bosco, la strada e un pezzo di spiaggia separavano i capanni dalle case. Era difficile che incontrassi qualcuno così di buon’ora; e bagnanti non se ne vedevano mai. Ma una mattina scorsi ad un tratto una figura femminile che fino allora mi era rimasta nascosta: procedeva cautamente sullo stretto terrazzino di uno dei capanni piantati nella sabbia, mettendo un piede avanti all’altro e con le braccia tese indietro lungo la parete di legno. Era una ragazza giovanissima, forse quindicenne, coi capelli biondi sciolti che le ricadevano sulle spalle e, da una parte, sul seno delicato. La ragazza guardava l’acqua dinanzi a sé, scivolando adagio lungo la parete si spostava senza alzare lo sguardo verso l’altro angolo e tutt’a un tratto venne a trovarsi proprio di fronte a me; tese ancora di più le braccia all’indietro, come per aggrapparsi meglio, alzò gli occhi e improvvisamente si accorse di me. Un tremito la scosse, quasi dovesse cadere o fuggire. Ma poiché su quella stretta striscia di legno non si sarebbe potuta muovere che lentamente, decise di fermarsi, - e restò così, il viso dapprima impaurito, poi arrabbiato, infine impacciato. A un tratto però sorrise, sorrise meravigliosamente; nei suoi occhi c’era un saluto, un invito, - e allo stesso tempo una leggera derisione nel modo come sfiorò fuggevolmente con lo sguardo l’acqua ai suoi piedi che mi divideva da lei. Poi distese il corpo giovane e snello, quasi lieta della sua bellezza e, come si poteva facilmente notare, fiera e deliziosamente eccitata per il luccichio del mio sguardo che sentiva fisso su di sé. Restammo così, l’uno di fronte all’altra, forse dieci secondi, le labbra semiaperte e gli occhi scintillanti. Tesi istintivamente le braccia verso di lei, nel suo sguardo si leggeva passione e gioia. Ma all’improvviso ella scosse violentemente la testa, staccò un braccio dalla parete e mi fece imperiosamente cenno di allontanarmi; e poiché non mi decisi a ubbidire subito, i suoi occhi di bambina assunsero una tale espressione di preghiera, di implorazione, che non mi restò altro che andarmene. Proseguii il mio cammino più in fretta che potei; non mi girai a guardarla neppure una volta, non proprio per riguardo, ubbidienza o cavalleria, ma perché il suo ultimo sguardo aveva suscitato in me una tale commozione, superiore a ogni altra esperienza, che mi sentivo vicino a svenire». Tacque. «E quante volte» chiese Albertine guardando dinanzi a sé senza alcuna enfasi «hai rifatto in séguito lo stesso cammino?». «Quel che ti ho raccontato» rispose Fridolin «accadde per caso l’ultimo giorno della nostra vacanza in Danimarca. Neanch’io so che cosa sarebbe avvenuto in circostanze diverse. Evita anche tu di fare altre domande, Albertine». Fridolin stava sempre presso la finestra, immobile. Albertine, gli occhi umidi e misteriosi, la fronte leggermente corrugata, gli si avvicinò. «D’ora innanzi ci racconteremo sempre subito storie del genere» disse. Egli annuì, muto. «Promettimelo». Fridolin l’attirò a sé. «Non ne sei convinta?» chiese; ma la sua voce continuava ad avere un tono duro. Albertine gli prese le mani, le carezzò e lo guardò con occhi velati nel cui fondo egli poteva leggere i suoi pensieri. Ora lei riandava con la mente ad altre, più reali avventure di Fridolin, alle sue avventure giovanili, che conosceva in parte, perché lui, cedendo troppo docilmente alla sua gelosia, gliene aveva parlato nei primi anni di matrimonio, anzi, come spesso gli sembrava, le aveva abbandonate alla sua curiosità mentre avrebbe fatto meglio a tenerle per sé. Fridolin sapeva che in quel momento sorgevano imperiosi in lei i ricordi e si meravigliò appena quando le sentì pronunciare, come in sogno, il nome quasi dimenticato di una delle sue amanti di gioventù. Eppure quel nome gli suonò all’orecchio come un rimprovero, anzi come una lieve minaccia. Si portò alle labbra le mani della moglie. «In ogni donna - credimi, anche se può sembrare una facile affermazione - in ogni donna che credevo di amare ho sempre cercato te; ne sono convinto più di quanto tu possa capire, Albertine». Ella sorrise triste. «E se anch’io avessi avuto voglia di cercarti prima in altri uomini?» disse, e il suo sguardo si trasformò e divenne freddo e impenetrabile. Fridolin abbandonò le sue mani, quasi l’avesse sorpresa mentre diceva una menzogna o lo tradiva; ma lei continuò: «Ah, se sapeste!» e tacque di nuovo. «Se sapessimo?... Che vuoi dire?». «Press’a ppoco quel che pensi, mio caro» rispose Albertine con insolita durezza. «Albertine - allora mi hai nascosto qualcosa?». Lei annuì e guardò dinanzi a sé con uno strano sorriso, mentre in lui si destavano inconcepibili, assurdi dubbi. «Non riesco a capire» disse Fridolin. «Avevi appena diciassette anni quando ci fidanzammo». «Sedici passati, Fridolin. Eppure...» lo guardò francamente negli occhi «non dipese da me se divenni tua moglie ancora vergine». «Albertine...». Ed ella raccontò: «Fu sul Wòrthersee, poco prima del nostro fidanzamento, Fridolin; una splendida sera d’estate un bellissimo giovane si fermò davanti alla mia finestra che guardava sull’ampia distesa del prato, ci mettemmo a parlare e durante quella conversazione pensai, ebbene, senti un po’ che cosa pensai: che ragazzo simpatico e affascinante, se dicesse ora una sola parola, quella giusta naturalmente, andrei con lui sul prato, passeggerei con lui dovunque gli piaccia, - forse nel bosco - ancora più bello sarebbe se andassimo insieme in barca sul lago - stanotte potrebbe avere da me tutto quel che vuole. Sì, questo pensai. Ma l’incantevole giovane non pronunciò quella parola; mi baciò solo delicatamente la mano, - e il mattino successivo mi chiese se volevo diventare sua moglie. E io dissi di sì». Fridolin lasciò andare seccato la mano della moglie, poi disse: «E se quella sera ci fosse stato per caso un altro davanti alla tua finestra e gli fosse venuta in mente la parola giusta, per esempio...» pensò quale nome dovesse dire, quando lei allungò le braccia come per dissuaderlo. «Un altro, chiunque altro, avrebbe potuto dire ciò che voleva, - non gli sarebbe valso a nulla. E se non fossi stato tu il giovane davanti alla finestra», gli sorrise «allora anche la sera d’estate non sarebbe stata certo così bella». Egli storse beffardamente la bocca. «Lo dici adesso e forse in questo momento ne sei anche convinta. Ma...». Bussavano alla porta. Entrò la cameriera e disse che la portiera della Schreyvogelgasse era venuta a pregare il dottore di recarsi dal consigliere che stava di nuovo molto male. Fridolin andò nell’anticamera e la donna l’informò che il consigliere aveva avuto un attacco di cuore e si sentiva malissimo; promise che sarebbe andato immediatamente. Mentre si preparava in fretta, Albertine gli chiese: «Esci?» in tono adirato, come se il marito, uscendo, volesse farle un dispetto. Fridolin rispose quasi stupito: «Non posso certo farne a meno». Albertine sospirò leggermente. «Speriamo che non sia così grave», disse Fridolin «finora tre centigrammi di morfina lo hanno sempre aiutato a superare l’attacco». La cameriera aveva portato la pelliccia, Fridolin baciò piuttosto distrattamente Albertine sulla fronte e sulla bocca, come se il colloquio delle ore precedenti si fosse già cancellato dalla sua memoria, e si allontanò in fretta. SECONDO. In strada dovette aprire la pelliccia. Era cominciato improvvisamente il disgelo, la neve sul marciapiede si era quasi sciolta e spirava un venticello che annunziava la primavera. Dall’abitazione di Fridolin nella Josefstadt, vicino all’ospedale, alla Schreyvogelgasse c’era meno di un quarto d’ora; e così ben presto Fridolin salì la scala tortuosa e male illuminata della vecchia casa, giunse al secondo piano e tirò il cordone del campanello; ma ancor prima che quel suono antiquato si facesse sentire, notò che la porta era solo accostata; attraverso l’anticamera oscura entrò nel soggiorno e vide subito che era giunto troppo tardi. La lampada a petrolio col paralume verde che pendeva dal soffitto basso illuminava debolmente la coperta sotto la quale era disteso immobile un corpo magro. Il volto del morto era in ombra, ma Fridolin lo conosceva così bene che credette di vederlo con piena chiarezza - magro, rugoso, la fronte alta, la barba bianca corta, le orecchie singolarmente brutte ricoperte di peli bianchi. Marianne, la figlia del consigliere, sedeva ai piedi del letto, le braccia ciondolanti, come disfatta per la stanchezza. C’era odore di vecchi mobili, medicine, petrolio, cucina; ma un po’ anche di acqua di colonia e sapone alla rosa, e Fridolin sentiva anche in qualche modo il profumo insipido e dolciastro di quella ragazza pallida, ancora giovane, che da mesi, da anni sfioriva lentamente, impegnata in duri lavori casalinghi, veglie notturne e faticosa assistenza al malato. All’ingresso del medico aveva sollevato lo sguardo su di lui, ma poiché c’era poca luce non potè vedere bene se fosse arrossita come le altre volte al suo apparire. Marianne voleva alzarsi, Fridolin glielo impedì con un gesto della mano, lei gli fece un cenno di saluto con gli occhi grandi ma tristi. Fridolin si accostò al letto, sfiorò meccanicamente la fronte del morto e le braccia, che giacevano sulla coperta, le maniche della camicia ampie e sbottonate, poi si strinse nelle spalle un po’ dispiaciuto, affondò le mani nelle tasche del cappotto di pelliccia, vagò con lo sguardo qua e là nella stanza e infine lo posò su Marianne. I suoi capelli erano folti e biondi ma aridi, il bel collo snello non del tutto privo di rughe e di un colore giallognolo, le labbra sottili come per le molte parole non dette. «Ebbene», mormorò quasi impacciato «mia cara signorina, l’evento non la coglie certo impreparata». Lei gli diede la mano. Lui gliela strinse partecipe, si informò doverosamente del decorso dell’ultimo attacco che aveva provocato la morte, Marianne riferì con frasi brevi e obiettive e parlò poi degli ultimi giorni, relativamente tranquilli, in cui Fridolin non aveva visto il malato. Fridolin aveva accostato una sedia, si sedette di fronte a Marianne e per confortarla le fece considerare che nelle ultime ore suo padre non poteva aver sofferto molto; poi s’informò se erano stati avvertiti i parenti. Sì; la portiera era già andata dallo zio e in ogni caso presto sarebbe venuto il dottor Roediger, «il mio fidanzato», aggiunse evitando di guardare Fridolin negli occhi. Fridolin annuì soltanto. Nel corso di un anno aveva incontrato il dottor Roediger due o tre volte lì in casa. Quel giovane pallido e dinoccolato, con barba bionda corta e occhiali, docente di storia all’Università di Vienna, gli era piaciuto abbastanza senza stimolare oltre il suo interesse. Marianne avrebbe certo un aspetto migliore, pensò, se fosse la sua amante, i suoi capelli sarebbero meno aridi, le sue labbra più rosse e piene. Quanti anni potrà avere? si domandò ancora. Quando fui chiamato la prima volta per visitare il consigliere, tre o quattro anni fa, aveva ventitré anni. Allora era ancora viva la mamma. Era più serena allora. Non aveva preso per qualche tempo lezioni di canto? Dunque sposerà questo docente. Perché lo fa? Innamorata non lo è di certo, né lui dovrebbe essere molto ricco. Che matrimonio sarà mai? Mah, un matrimonio come tanti altri. Che m’importa. Probabilmente non la rivedrò mai più, ora che non ho più nulla da fare in questa casa. Ahimè, quante persone non ho più rivisto che mi erano più care di lei! Mentre quei pensieri gli attraversavano la mente, Marianne aveva cominciato a parlare del defunto con una certa insistenza, come se la semplice circostanza della morte lo avesse fatto diventare a un tratto una persona importante. Dunque aveva davvero solo cinquantaquattro anni? Certo, con tante preoccupazioni e delusioni, la moglie sempre sofferente - e il figlio gli aveva dato tanti dispiaceri! Come, aveva un fratello? Sicuro. Ma gliel’aveva già detto una volta. Il fratello viveva ora da qualche parte all’estero; nella cameretta di Marianne c’era un quadro che egli aveva dipinto a quindici anni. Rappresentava un ufficiale che galoppava giù per una collina. Il padre aveva fatto sempre finta di non accorgersi del quadro. Ma era un buon quadro. In condizioni più favorevoli il fratello avrebbe potuto fare sicuramente dei progressi. Come parla eccitata, pensò Fridolin, e come le luccicano gli occhi! Febbre? Può darsi. È dimagrita negli ultimi tempi. Apicite, probabilmente. Continuava a parlare, ma gli sembrò che non sapesse bene con chi, oppure che parlasse con se stessa. Il fratello mancava da casa da dodici anni, sì, era ancora una bambina quando era improvvisamente scomparso. Quattro o cinque anni prima, a Natale, erano giunte l’ultima volta sue notizie da una cittadina italiana. Strano, ne aveva dimenticato il nome. Continuò così ancora per un certo tempo a parlare di cose insignificanti, senza che fosse necessario, quasi senza nesso, finché all’improvviso tacque; ora sedeva lì muta, il capo fra le mani. Fridolin era stanco e ancor più annoiato, aspettava ansiosamente che venisse qualcuno; i parenti o il fidanzato. Il silenzio gravava pesantemente nella stanza. Aveva l’impressione che il morto tacesse con loro; non perché era ormai impossibile che parlasse, ma di proposito e con gioia maligna. Fridolin gli gettò un’occhiata di lato, poi disse: «Ad ogni modo, come stanno ora le cose, signorina Marianne, è un bene che lei non debba restare più a lungo in questa casa», e poiché ella sollevò un po’ la testa, senza però guardare Fridolin «il suo fidanzato otterrà presto una cattedra; alla facoltà di lettere ci sono maggiori possibilità che da noi, in questo senso». Si ricordò che qualche anno prima aveva anche lui aspirato alla carriera universitaria, ma aveva finito per scegliere la libera professione, per la sua tendenza ad una vita più comoda; e ad un tratto gli sembrò di essere meno importante dell’eccellente dottor Roediger. «Quest’autunno ci trasferiamo», disse Marianne senza scomporsi «è stato chiamato all’Università di Gottinga». «Ah» disse Fridolin e voleva congratularsi in qualche modo, ma gli sembrò fuori luogo in quel momento e in quella circostanza. Gettò un’occhiata alla finestra chiusa e, senza chiederne il permesso, come esercitando un suo diritto di medico, la spalancò e fece entrare l’aria, che nel frattempo si era fatta ancora più tiepida, primaverile, e sembrava portare con sé un lieve profumo dai boschi lontani che si risvegliavano dal sonno invernale. Quando si girò, vide gli occhi di Marianne fissi interrogativamente su di lui. Le si fece più vicino e osservò: «Spero che l’aria fresca le faccia bene. Fa addirittura caldo, e ieri notte...» stava quasi per dire: siamo tornati a casa dal ballo in maschera in una tempesta di neve, ma modificò subito la frase ed aggiunse: «Ieri sera c’era ancora mezzo metro di neve per le strade». Lei ascoltò appena le sue parole. Gli occhi le s’inumidirono, grosse lacrime le rigarono le guance e nascose di nuovo il viso tra le mani. Istintivamente Fridolin le posò la mano sul capo e le accarezzò la fronte. Sentì che il suo corpo cominciava a tremare, poi lei prese a singhiozzare, dapprima quasi in silenzio, poi più forte, infine senza più controllarsi. Improvvisamente era scivolata dalla sedia e giaceva ai piedi di Fridolin, abbracciò le sue ginocchia e vi premette contro il viso. Poi lo guardò con occhi spalancati, furiosi per il dolore e sussurrò ardentemente: «Non voglio andar via di qui. Anche se lei non ritornerà mai, se non la vedrò mai più; voglio vivere vicino a lei». Fridolin era più commosso che sorpreso; poiché aveva sempre saputo che era innamorata di lui, o credeva di esserlo. «Si alzi, Marianne» disse piano, si chinò su di lei, l’aiutò ad alzarsi con delicatezza e pensò: naturalmente si tratta anche di un po’ di isteria. Gettò una rapida occhiata al padre morto. Chissà che non senta tutto, pensò. Che sia una morte apparente? Forse càpita a tutti di essere morti solo apparentemente nelle prime ore dopo il decesso. Teneva Marianne fra le braccia, ma allo stesso tempo leggermente discosta da sé, la baciò quasi senza volerlo sulla fronte, e quel gesto gli sembrò un po’ ridicolo. Si ricordò fuggevolmente di un romanzo che aveva letto molti anni prima e in cui un giovanotto, quasi un ragazzo, veniva sedotto, o meglio violentato, presso il letto di morte della madre da un’amica di lei. Nello stesso istante, senza sapere perché, fu costretto a pensare a sua moglie. Sentì affiorare un senso di amarezza nei confronti di Albertine ed un sordo rancore contro il signore con la borsa da viaggio gialla sulla scala dell’albergo in Danimarca. Attirò più fortemente a sé Marianne, ma non provò la minima eccitazione; anzi, la vista dei capelli opachi e aridi e l’odore dolciastro e stantio del suo abito gli diedero una leggera ripugnanza. In quel momento suonò il campanello, si sentì come liberato, baciò in fretta la mano di Marianne, quasi per riconoscenza, e andò ad aprire. Sulla soglia apparve il dottor Roediger, cappotto grigio scuro, soprascarpe ed ombrello in mano, l’espressione del viso grave ed adatta alla circostanza. I due uomini si scambiarono un cenno di saluto, più confidenziale di quanto lo richiedessero i loro reali rapporti. Entrarono poi nella stanza, Roediger fece le condoglianze a Marianne dopo aver gettato uno sguardo imbarazzato al morto; Fridolin andò nella camera accanto per redigere il certificato di morte, alzò la fiamma della lampada a gas sulla scrivania e il suo sguardo cadde sull’immagine dell’ufficiale in uniforme bianca che, brandendo la sciabola, galoppava giù per la collina contro un nemico invisibile. Il quadro era racchiuso in una sottile cornice di oro brunito e non faceva un effetto molto migliore di una modesta oleografia. Fridolin ritornò col certificato di morte nella stanza dove i fidanzati, la mano nella mano, sedevano presso il letto del padre. Suonò di nuovo il campanello, il dottor Roediger si alzò e andò ad aprire; nel frattempo, lo sguardo fisso a terra, con un filo di voce, Marianne disse: «Ti amo». Fridolin replicò pronunciando, non senza tenerezza, il nome di Marianne. Roediger ritornò con una coppia di coniugi anziani. Erano lo zio e la zia di Marianne; si scambiarono alcune parole di circostanza con l’impaccio che la presenza di un uomo morto da poco suole diffondere intorno. La piccola camera sembrò improvvisamente come affollata di gente, Fridolin ebbe l’impressione di essere di troppo, si congedò e venne accompagnato da Roediger, che ritenne di dover dire alcune parole di ringraziamento ed espresse la sua speranza di incontrarlo presto di nuovo. TERZO. Davanti al portone Fridolin alzò gli occhi verso la finestra che aveva aperto poco prima; le imposte oscillavano lievemente al vento quasi primaverile. Coloro che erano rimasti di sopra, i vivi come il morto, gli sembravano ora spettralmente irreali. Aveva l’impressione di essere sfuggito non tanto a un’avventura, quanto piuttosto a un malinconico incantesimo che non era riuscito a soggiogarlo. L’unica conseguenza era una strana avversione a ritornare a casa. La neve per le strade si era sciolta, a destra e a sinistra si vedevano piccoli mucchietti di un bianco sporco, le fiammelle a gas dei lampioni oscillavano; da una chiesa vicina rintoccarono le undici. Fridolin decise di trattenersi ancora un po’ nel tranquillo angolo di un caffè vicino a casa sua, prima di andare a dormire, e s’incamminò attraverso il parco del municipio. Sulle panchine in ombra sedevano qua e là coppie abbracciate, come se fosse già veramente primavera e l’ingannevole aria calda non fosse pregna di pericoli. Su una panchina stava disteso un uomo piuttosto cencioso, il cappello tirato sugli occhi. Se lo svegliassi, pensò Fridolin, e gli dessi i soldi per procurarsi da dormire stanotte? Ah, a che servirebbe, rifletté ancora, allora dovrei provvedervi anche domani, altrimenti non avrebbe alcun senso e alla fine si potrebbe pensare che io abbia con lui dei rapporti equivoci. Accelerò il passo come per sfuggire il più presto possibile a ogni specie di responsabilità e di tentazione. Perché proprio quello? si domandò, nella sola Vienna vivono migliaia di poveri diavoli come lui. Se ci si volesse prender cura di tutti - del destino di tutti gli sconosciuti! E gli venne in mente il morto che aveva appena lasciato, pensò con un certo raccapriccio e non senza disgusto che in quel corpo magro allungato sotto la bruna coperta di flanella la decomposizione, ubbidendo a leggi eterne, aveva già iniziato la sua opera. Si rallegrò di essere ancora vivo e, con ogni probabilità, ancora lontano da tutte quelle cose spiacevoli; era ancora nel pieno della giovinezza, marito di una donna amabile ed attraente, si sapeva capace di procurarsi anche altre donne, solo che ne avesse avuto voglia. Certo, per uno svago del genere ci sarebbe voluto più tempo libero di quanto gli era concesso; si ricordò che l’indomani mattina alle otto doveva trovarsi nel suo reparto, dalle undici all’una andare a visitare pazienti privati, il pomeriggio dalle tre alle cinque ricevere nel suo studio e che anche nelle ore serali lo attendevano alcune visite a domicilio. Comunque - sperava che almeno non lo venissero a chiamare di nuovo a sera tarda, come era accaduto oggi. Attraversò la piazza del municipio che luccicava opaca come uno stagno brunastro, e si avviò verso il familiare quartiere di Josefstadt. Udì da lontano dei passi pesanti, regolari, e vide, ancora ad una certa distanza, proprio mentre voltavano l’angolo di una strada, un gruppetto di sei od otto studenti che procedevano nella sua direzione. Quando i giovani capitarono sotto la luce di un lampione, credette di riconoscere i berretti blu della corporazione studentesca degli alemanni. Non aveva fatto mai parte di un’associazione di goliardi ma a suo tempo si era qualche volta misurato in duello con loro. Il ricordo degli anni di università gli richiamò alla mente le due maschere in domino rosso che la notte scorsa l’avevano attirato nel palco e subito dopo insolentemente abbandonato. Gli studenti si erano avvicinati, parlavano ad alta voce e ridevano; - poteva darsi che ne avesse già conosciuto qualcuno in ospedale? Ma con quella luce incerta non era possibile scorgerne i volti. Dovette tenersi molto accosto al muro per evitare di scontrarsi con loro; - adesso erano passati; solo l’ultimo, uno spilungone col cappotto aperto e una benda sull’occhio sinistro, sembrò attardarsi addirittura di proposito e gli diede una gomitata. Non poteva essere un caso. Che gli salta in mente, pensò Fridolin, e istintivamente si fermò; l’altro fece lo stesso dopo due passi, si guardarono così per un momento negli occhi piuttosto da vicino. Ma improvvisamente Fridolin si voltò e proseguì per la sua strada. Udì una breve risata alle sue spalle, si sarebbe quasi girato di nuovo per affrontare il giovanotto, ma sentì uno strano batticuore - proprio come una volta dodici o quattordici anni prima, quando qualcuno aveva bussato violentemente alla porta mentre si trovava da lui quella graziosa fanciulla che amava sempre chiacchierare di un fidanzato che viveva lontano e probabilmente non esisteva affatto; in realtà non era stato che il postino a bussare a quel modo. E adesso sentiva il cuore battere proprio come allora. Che succede, si domandò adirato, e notò che gli tremavano un po’ le ginocchia. Viltà...? Sciocchezze, si disse. Dovrei forse litigare con uno studente ubriaco, io, un uomo di trentacinque anni, medico, sposato, padre di una bambina! Sfida! Padrini! Duello! E infine una bella ferita al braccio per una così stupida provocazione? Inabile al lavoro per qualche settimana? Oppure la perdita di un occhio? O addirittura: setticemia...? E fra otto giorni... disteso sotto la coperta di flanella bruna come il signore della Schreyvogelgasse! Viltà...? Si era battuto tre volte con la sciabola e una volta aveva anche accettato un duello alla pistola, poi la questione era stata composta pacificamente, non certo per sua iniziativa. E la sua professione! Pericoli da ogni parte ed in ogni momento, solo che uno non ci faceva più caso. Quanto tempo era trascorso da quando il bambino con la difterite gli aveva tossito in faccia? Tre o quattro giorni, non di più. Quella era comunque una faccenda più preoccupante di un duello alla sciabola. Tuttavia non ci aveva più pensato. Eppoi, se avesse incontrato di nuovo quel tipo, avrebbe pur sempre potuto chiarire la questione. Non era affatto obbligato, a mezzanotte, mentre tornava da un malato o si recava da un malato, - in fondo era possibile anche quello, - no, non era veramente obbligato a reagire a una sciocca provocazione goliardica. Se adesso per esempio gli fosse venuto incontro il giovane danese con cui Albertine... ma no, che gli saltava mai in mente? Ebbene - in fondo era come se fosse stata la sua amante, o peggio ancora. Sì, che gli venisse incontro lui in quel momento! Oh, sarebbe un vero piacere potergli stare di fronte in una radura e puntare contro quella testa dai capelli biondi e lisciati la canna di una pistola. A un tratto, superata ormai la sua meta, si trovò in una stradina in cui si aggiravano solo alcune squallide prostitute a caccia notturna di uomini. Che atmosfera spettrale, pensò. Anche gli studenti dai berretti blu divennero improvvisamente spettrali nel ricordo, così pure Marianne, il fidanzato, lo zio e la zia, che ora immaginò tenersi per mano attorno al letto di morte del vecchio consigliere; anche Albertine, che gli apparve immersa in un sonno profondo, le mani incrociate dietro la nuca - persino la bambina, che a quell’ora dormiva raggomitolata nel lettino bianco, e la governante dalle guance rubiconde con la voglia sulla tempia sinistra tutti si erano trasformati ai suoi occhi in figure assolutamente spettrali. E sebbene quella sensazione lo facesse un po’ inorridire, gli trasmetteva però, allo stesso tempo, una certa calma che sembrava liberarlo da ogni responsabilità, e addirittura svincolarlo da ogni rapporto umano. Una delle passeggiatrici lo invitò ad andare con lei. Era una creatura graziosa, ancora molto giovane, pallidissima, le labbra tinte di rossetto. Anche un’avventura simile potrebbe concludersi con la morte, pensò, solo che la fine non sarebbe tanto rapida! Di nuovo la viltà? In fondo sì. Sentì alle sue spalle i passi della donna e poi la sua voce. «Allora andiamo, dottore?». Si voltò involontariamente. «Come fai a conoscermi?» chiese. «Non la conosco», disse «ma in questo quartiere sono tutti dottori». Non aveva avuto a che fare con una donna del genere dagli anni del liceo. L’eccitazione che quella creatura gli procurava aveva forse il senso di un improvviso ritorno all’adolescenza? Si ricordò di un conoscente occasionale, un giovane elegante che si diceva avesse un’enorme fortuna con le donne, col quale, da studente, aveva trascorso qualche ora in un locale notturno al termine di una festa da ballo; questi, prima di allontanarsi con una delle entraineuses, al suo sguardo alquanto meravigliato aveva replicato con le parole: «In fondo è sempre la cosa più comoda; - e non sono neanche peggiori di tante altre». «Come ti chiami?» chiese Fridolin. «Beh, come vuoi che ci chiamiamo noi? Mizzi, naturalmente». Aveva già girato la chiave nel portone di casa, era entrata e aspettava che Fridolin la seguisse. «Svelto!» disse, poiché egli esitava. A un tratto Fridolin si trovò vicino a lei, il portone si serrò alle sue spalle, la ragazza chiuse a chiave, accese una piccola candela e gli fece luce. «Sono pazzo?» si chiese. «Naturalmente non la toccherò». Nella stanza ardeva una lampada ad olio. La donna alzò il lucignolo, era un ambiente molto accogliente, ben tenuto, e comunque si sentiva un odore più gradevole che in casa di Marianne, per esempio. Certo - lì dentro non era stato a letto un vecchio ammalato. La ragazza sorrise, si avvicinò con discrezione a Fridolin, che l’allontanò dolcemente. Poi gli indicò una sedia a dondolo in cui egli si abbandonò con piacere. «Devi essere molto stanco» disse. Egli annuì. E mentre si spogliava senza fretta, la ragazza aggiunse: «Si capisce, un uomo come te, chissà quanto avrà da fare tutto il giorno. Per una di noi la vita è certo più facile». Fridolin si accorse che le sue labbra non erano per nulla truccate, ma colorite di un rosso naturale e le fece un complimento. «Perché dovrei truccarmi?» domandò. «Quanti anni credi che abbia?». «Venti?» tirò a indovinare Fridolin. «Diciassette» rispose, si sedette sulle sue ginocchia e gli cinse la nuca con il braccio come una bambina. Chi mai al mondo potrebbe supporre che mi trovo in questa stanza? egli pensò. Io stesso l’avrei forse ritenuto possibile un’ora, dieci minuti fa? E - perché? Perché? Lei cercò di baciarlo sulle labbra, lui si tirò indietro; la donna lo guardò meravigliata, un po’ triste, e si lasciò scivolare dalle sue ginocchia. A Fridolin quasi dispiacque, perché quell’abbraccio esprimeva tanta consolante tenerezza. La ragazza prese una vestaglia rossa che era appoggiata sulla spalliera del letto, se l’infilò e incrociò le braccia sul petto, nascondendo così del tutto il suo corpo. «Va bene ora?» chiese senza scherno, quasi timida, come se cercasse di capirlo. Fridolin non sapeva bene cosa rispondere. «Hai proprio indovinato», disse infine «sono davvero stanco e trovo molto piacevole starmene sdraiato sulla poltrona a dondolo, semplicemente ad ascoltarti. Hai una voce così gradevole e dolce. Parla, raccontami qualcosa». La ragazza era seduta sul letto e scrollò il capo. «Hai solo paura» disse piano e poi tra sé, quasi sottovoce: «Peccato!». Quest’ultima parola suscitò in Fridolin un’improvvisa eccitazione. Si avvicinò a lei, volle abbracciarla, disse che gli ispirava piena fiducia, e forse era anche vero. L’attirò a sé, la corteggiò come si fa con una donna, con una ragazza amata. Ma lei si oppose, Fridolin si vergognò ed infine desistette. Lei disse: «Non si può mai sapere, una volta o l’altra toccherà anche a me. Fai molto bene ad aver paura. E se capitasse qualcosa mi malediresti». Rifiutò con grande decisione le banconote che le offrì ed egli non potè insistere oltre. La ragazza si gettò sulle spalle uno scialletto di lana blu, accese una candela, gli fece luce accompagnandolo giù e aprì il portone. «Ormai oggi resterò a casa» disse. Fridolin le prese la mano e istintivamente gliela baciò. Lei lo guardò sorpresa, quasi spaventata, poi rise imbarazzata e felice. «Come una signorina per bene» disse. Il portone si chiuse alle sue spalle e Fridolin con una rapida occhiata si fissò in mente il numero della casa per poter inviare l’indomani vino e leccornie a quella povera, cara ragazza. QUARTO. L’aria si era fatta ancora più calda. Il vento tiepido portava nella stradina un profumo di prati umidi e di monti lontani in primavera. Dove vado ora? pensò Fridolin, come se non fosse naturale tornare finalmente a casa e andare a letto. Ma non potè decidersi a farlo. Dopo quello spiacevole incontro con gli studenti gli sembrava di essere un reietto, uno sbandato... O forse dopo la confessione di Marianne? No, da prima ancora dopo la conversazione serale con Albertine si stava allontanando sempre più dalla normale sfera della sua esistenza, addentrandosi in un altro mondo, lontano ed estraneo. Vagò per le strade nella notte, si fece carezzare la fronte da un leggero Fóhn e infine con passo deciso, come se fosse giunto a una meta a lungo cercata, entrò in un caffè qualunque, accogliente, di vecchio stile, non molto grande, scarsamente illuminato e, a quell’ora tarda, quasi vuoto. In un angolo tre signori giocavano a carte; un cameriere che fino allora aveva seguito il gioco aiutò Fridolin a togliersi la pelliccia, prese l’ordinazione e gli mise sul tavolo riviste illustrate e giornali della sera. Fridolin si sentì come al sicuro e cominciò a sfogliare rapidamente i giornali. Il suo sguardo si fermava qua e là sulle notizie di cronaca. In una città della Boemia erano stati divelti dei cartelli stradali in lingua tedesca. A Costantinopoli era in corso una conferenza per la costruzione di una ferrovia in Asia Minore alla quale partecipava anche Lord Cranford. La ditta Benies Se Weingruber aveva dichiarato fallimento. La prostituta Anna Tiger aveva tentato, per gelosia, di sfregiare col vetriolo l’amica Hermine Drobizky. Quella sera aveva luogo nelle Sophiensälen una cena a base di pesce. Una giovane, Marie B., abitante nella Schönbrunner Hauptstrasse 28, si era avvelenata col sublimato. Tutti quei fatti, insignificanti o tristi, esercitavano, con la loro asciutta banalità, un effetto in qualche modo disincantante e tranquillizzante su Fridolin. Provò una certa compassione per la giovane Marie B.; sublimato, che stupidaggine. In quel medesimo istante, mentre lui sta seduto comodamente al caffè, Albertine dorme tranquilla con le mani incrociate dietro la nuca e il consigliere ha ormai superato ogni sofferenza terrena, Marie B., Schönbrunner Hauptstrasse 28, si torce in dolori insensati. Sollevò lo sguardo dal giornale. Da un tavolo di fronte due occhi erano fissi su di lui. Possibile? Nachtigall...? Questi l’aveva già riconosciuto, alzò le braccia lietamente sorpreso, e gli si avvicinò; era un uomo ancora giovane, alto e abbastanza robusto, quasi tozzo, coi capelli lunghi, leggermente ondulati e già un po’ brizzolati, e baffi bianchi rivolti all’ingiù alla maniera polacca. Portava un cappotto grigio aperto e, sotto, un frac alquanto unto, una camicia sgualcita con tre bottoni di brillanti falsi, un colletto spiegazzato e una cravatta svolazzante di seta bianca. Aveva le palpebre arrossate come per molte notti insonni, ma gli occhi brillavano chiari e azzurri. «Nachtigall, sei a Vienna!» esclamò Fridolin. «Non lo sai?» disse Nachtigall con morbido accento polacco e una leggera cadenza ebrea. «Com’è possibile che tu non lo sappia? Eppure sono così famoso». Rise forte e bonariamente, e si sedette di fronte a Fridolin. «Come?» chiese Fridolin. «Magari sei diventato in segreto professore di chirurgia?». Nachtigall scoppiò in una risata più fragorosa. «Non mi hai sentito poco fa?». «Come, sentito? Ah, ora capisco!». E solo allora Fridolin si rese conto che entrando nel locale, ma anche prima, mentre si avvicinava al caffè, aveva sentito venir su da uno scantinato il suono di un pianoforte. «Allora eri tu il pianista?» esclamò. «Chi altri se no?» rispose ridendo Nachtigall. Fridolin annuì. Naturalmente; - quel tocco energico e singolare, quegli strani accordi della mano sinistra un po’ troppo liberi ma ben armonizzati, gli erano sembrati subito così familiari. «Allora ti sei dedicato tutto alla musica?» disse. Si ricordò che Nachtigall aveva abbandonato definitivamente lo studio della medicina già dopo il secondo preesame di zoologia, che pure aveva superato, anche se con sette anni di ritardo. Ma aveva continuato ad aggirarsi ancora a lungo per l’ospedale, la sala anatomica, i laboratori e le aule, dando vita con la sua bionda testa d’artista, il colletto sempre spiegazzato, la cravatta svolazzante che una volta doveva essere stata bianca, a un personaggio stravagante, popolare e benvoluto non solo dai colleghi ma perfino da alcuni professori. Figlio di un ebreo proprietario di una mescita di acquavite in un paesino polacco, era venuto a Vienna per studiare medicina. Le esigue sovvenzioni dei genitori, sin dall’inizio quasi irrilevanti, erano per giunta presto cessate del tutto, ma ciò non gli aveva impedito di continuare a frequentare un gruppo di studenti di medicina che si riunivano abitualmente al Riedhof e del quale faceva parte anche Fridolin. Da un certo momento in poi il suo conto era stato sempre pagato a turno da uno dei colleghi benestanti. Talvolta gli regalavano anche dei vestiti, che accettava altrettanto volentieri, senza falsa superbia. Già nel suo villaggio natale Nachtigall aveva cominciato a studiare il pianoforte con un concertista fallito e a Vienna da studiosus medicinae frequentava contemporaneamente il conservatorio, dove pare lo si considerasse dotato di un promettente talento. Ma anche in quel campo non mostrava la serietà e la diligenza necessarie per portare regolarmente a termine gli studi; ben presto si accontentò solo dei successi musicali ottenuti nella cerchia dei suoi conoscenti, anzi del piacere che procurava loro con le sue esecuzioni al pianoforte. Per un certo periodo aveva fatto il pianista in una scuola di ballo della periferia. Colleghi di università e amici conviviali avevano cercato di introdurlo in case signorili, ma in quelle occasioni suonava sempre solo ciò che sul momento gli andava a genio e fin quando ne aveva voglia; si abbandonava con le giovani signore a conversazioni non sempre innocenti e beveva più di quanto potesse tollerare. Una volta suonò a una festa da ballo in casa di un direttore di banca. Ancor prima di mezzanotte, dopo avere messo in imbarazzo con osservazioni galanti ed allusive le ragazze che gli passavano davanti e provocato il risentimento dei loro cavalieri, attaccò all’improvviso un furioso cancan e su quella musica cantò con la sua poderosa voce di basso una strofetta a doppio senso. Il direttore di banca lo rimproverò duramente. Nachtigall, come preso da subitanea euforia, si alzò e abbracciò il direttore; questi s’indignò e, sebbene anch’egli ebreo, lanciò al pianista una tipica ingiuria che Nachtigall ricambiò immediatamente con un potente ceffone - sembrò così definitivamente conclusa la sua carriera presso le famiglie per bene della città. In circoli più ristretti in genere si comportava meglio, sebbene anche in quelle occasioni a tarda ora fossero talvolta costretti ad allontanarlo con la forza dal locale. Ma la mattina successiva quegli incidenti venivano scusati e dimenticati da tutti. Un giorno, i suoi colleghi avevano terminato da un pezzo i loro studi, sparì dalla città senza salutare nessuno. Per alcuni mesi continuarono ad arrivare cartoline di saluto da diverse città polacche e russe; e una volta Fridolin, per il quale Nachtigall aveva sempre avuto una particolare simpatia, fu improvvisamente costretto a ricordarsi di lui per aver ricevuto non solo dei saluti, ma anche la richiesta di una modesta somma. Fridolin inviò subito il danaro senza mai più ricevere un ringraziamento od un qualunque segno di vita di Nachtigall. Ma in quel momento, alle due meno un quarto di notte, dopo otto anni, Nachtigall volle rimediare subito a quella dimenticanza e, ricordandosi esattamente l’ammontare della somma, tirò fuori le banconote da un portafogli alquanto logoro ma per altro discretamente fornito, sicché Fridolin potè accettare senza nessuno scrupolo la restituzione del danaro. «Allora te la passi bene» disse sorridendo, come per tranquillizzarsi. «Non posso lamentarmi» rispose Nachtigall. E posando la mano sul braccio di Fridolin: «Ma ora dimmi, com’è che vieni qui in piena notte?». Fridolin giustificò la sua presenza nel locale a un’ora così tarda col bisogno impellente di bere ancora un caffè dopo una visita notturna ad un malato; nascose però, senza saper bene perché, che non aveva più trovato in vita il suo paziente. Poi parlò in generale della sua attività di medico presso il Policlinico e del suo studio privato, raccontò di essere sposato, felicemente sposato e padre di una bambina di sei anni. Nachtigall raccontò a sua volta: come Fridolin aveva giustamente supposto, in tutti quegli anni si era guadagnato da vivere suonando il piano in ogni specie di cittadine polacche, rumene, serbe e bulgare; a Lemberg viveva una donna dalla quale aveva avuto quattro bambini; scoppiò a ridere, come se fosse assai buffo avere quattro bambini, tutti a Lemberg e tutti dalla stessa donna. Dall’autunno scorso abitava di nuovo a Vienna. Il teatro di varietà che l’aveva ingaggiato era subito fallito e ora suonava, come capitava, nei locali più diversi, talvolta anche in due o tre nella stessa notte, come ad esempio nello scantinato di quel caffè, - niente di molto signorile, osservò, in realtà una specie di locale per il gioco dei birilli, quanto al pubblico poi... «Ma quando si deve provvedere al sostentamento di quattro bambini e di una donna a Lemberg» e rise di nuovo, non più così allegramente come poco prima. «Talvolta lavoro anche per privati» aggiunse subito. E poiché colse sul volto di Fridolin un sorriso che alludeva ad un ricordo «Non per direttori di banca o roba del genere, no, in tutti gli ambienti possibili, anche importanti, pubblici e segreti». «Segreti?». Nachtigall assunse un’espressione scaltramente seria. «Fra poco mi verranno a prendere di nuovo». «Come, oggi suoni ancora?». «Certo, lì si comincia solo alle due». «Abitudine particolarmente raffinata» disse Fridolin. «Sì e no» rispose ridendo Nachtigall, ma si fece subito di nuovo serio. «Sì e no...?» ripetè Fridolin incuriosito. Nachtigall gli si avvicinò. «Oggi suono in una casa privata, ma non so chi è il proprietario». «Allora oggi è la prima volta?» chiese Fridolin con crescente interesse. «No, la terza. Ma probabilmente sarà di nuovo in una casa diversa». «Non capisco». «Neppure io» rise Nachtigall. «È meglio che tu non faccia domande». «Ehm» fece Fridolin. «Oh, ti sbagli. Non si tratta di quel che pensi. Ne ho già viste di tutti i colori, non lo si crederebbe, in certe cittadine, specialmente in Romania, si fanno molte esperienze. Ma qui...». Scostò un poco la tendina gialla della finestra, guardò in strada e disse come tra sé: «Non è ancora arrivata» poi precisò a Fridolin: «Intendo la carrozza. Mi viene sempre a prendere una carrozza, e sempre una diversa». «Mi incuriosisci, Nachtigall» disse freddamente Fridolin. «Senti» disse Nachtigall dopo qualche esitazione. «Se c’è uno a cui lo permetterei... ma come si fa...» e improvvisamente: «Hai coraggio?». «Strana domanda» rispose Fridolin in tono puerilmente offeso. «Dico così per dire». «Ma allora che intendi dire veramente? Perché in quest’occasione c’è bisogno di un particolare coraggio? Cosa può mai accadere?» disse Fridolin con una risatina sprezzante. «A me non può accadere nulla, tutt’al più oggi sarà l’ultima volta che suono per quella gente, ma forse andrà comunque così». Tacque e guardò di nuovo fuori, scostando la tendina. «Beh, allora?». «Dicevi?» domandò Nachtigall come trasognato. «Continua il racconto, dal momento che hai cominciato... Riunione segreta? Circolo esclusivo? Invito obbligatorio?». «Non so. Recentemente c’erano trenta persone, la prima volta solo sedici». «Una festa da ballo?». «Naturalmente, una festa da ballo». Ora Nachtigall sembrò pentirsi di aver parlato. «E tu suoni per l’occasione?». «Per quale occasione? Non so di che si tratti. Davvero non lo so. Io suono, suono... con gli occhi bendati». «Nachtigall, Nachtigall, che storie mi racconti mai!». Nachtigall sospirò. «Bendati, ma purtroppo non del tutto. Non così che non possa vedere proprio nulla. Infatti guardo nello specchio attraverso il fazzoletto di seta nera che mi ricopre gli occhi...». Tacque di nuovo. «In breve», disse Fridolin impaziente e con disprezzo, si sentiva però stranamente eccitato... «donnine nude». «Non dire donnine, Fridolin», rispose Nachtigall come offeso «femmine simili non ne hai mai viste». Fridolin si schiarì leggermente la voce. «E quanto costa l’entrata?» domandò di sfuggita. «Vuoi dire il biglietto d’ingresso o roba del genere? Ah, che ti salta in mente!». «Allora come si fa ad entrare?» chiese Fridolin a bassa voce e tamburellando con le dita sul tavolino. «Devi conoscere la parola d’ordine, e ogni volta ce n’è una diversa». «E quella di oggi?». «Non la conosco ancora. Me la dice il cocchiere». «Fammi venire con te, Nachtigall». «Impossibile, è troppo pericoloso». «Ma se un minuto fa avevi l’intenzione di... “permettermi”... Dovrà pur essere possibile». Nachtigall lo osservò attentamente. «Vestito come sei ora - non potresti in nessun caso, sono tutti mascherati, uomini e donne. Ce l’hai un costume o roba del genere? Ma no, è impossibile. Forse la prossima volta. Mi inventerò qualche trucco». Tese l’orecchio, guardò di nuovo in strada attraverso la tendina tirando un sospiro: «Ecco la carrozza. Adieu». Fridolin lo trattenne per il braccio. «Non mi sfuggirai tanto facilmente. Devi portarmi con te». «Ma collega...». «Lascia che pensi io a tutto il resto. So bene che è “pericoloso”... forse è proprio questo che mi attira». «Ma ti ho già detto... senza costume e mascherina...». «Ci sono ditte che noleggiano costumi». «All’una del mattino!». «Ascolta, Nachtigall. All’angolo della Wickenburgstrasse c’è un negozio del genere. Ogni giorno ci passo davanti diverse volte». E aggiunse frettolosamente e con crescente eccitazione: «Fèrmati qui ancora un quarto d’ora, Nachtigall, nel frattempo tenterò la sorte. Il proprietario della ditta abita probabilmente nello stesso edificio. Se non dovesse essere così... allora rinuncio al mio proposito. Deciderà il destino. Nel medesimo palazzo c’è un caffè, mi pare che si chiami Caffè Vindobona. Dici al cocchiere... di avere dimenticato qualcosa in quel caffè, entri, io aspetto vicino alla porta, mi riveli in fretta la parola d’ordine, risali nella tua carrozza; quanto a me, se mi sarà riuscito di procurarmi un costume, prendo subito un’altra carrozza e ti seguo, il resto si vedrà. Ti do la mia parola, Nachtigall, che dividerò in ogni caso il rischio con te». Nachtigall aveva tentato a più riprese di interrompere l’amico, ma non ci riuscì. Fridolin pagò il conto, diede una mancia fin troppo lauta, come gli sembrò s’addicesse allo stile di quella notte, e uscì. Fuori era ferma una carrozza chiusa; a cassetta, immobile, un cocchiere vestito tutto di nero con un alto cilindro; - sembra una carrozza funebre, pensò Fridolin. Pochi minuti dopo giungeva a passo veloce alla casa d’angolo che cercava, suonò, s’informò dal portiere se Gibiser il mascheraio abitava nel palazzo e sperò in segreto che non fosse così. Ma Gibiser abitava proprio là, al piano sotto il magazzino dei costumi, il portiere non sembrò neppure particolarmente sorpreso di quella visita ad ora tarda, anzi, reso affabile dalla mancia di Fridolin, osservò che durante il carnevale non capitava poi così di rado che qualcuno venisse a noleggiar costumi anche a quell’ora di notte. Fece luce con la candela dal basso finché Fridolin ebbe suonato al primo piano. Venne ad aprire proprio il signor Gibiser, quasi avesse atteso dietro la porta; magro, senza barba, calvo, con una vestaglia a fiori fuori moda e un berretto alla turca con nappa, sembrava un ridicolo vecchio da commedia. Fridolin chiese ciò che desiderava e aggiunse che non badava affatto al prezzo, ma Gibiser obiettò quasi sprezzante: «Non pretendo mai più di quanto mi spetti». Condusse Fridolin nel magazzino per una scala a chiocciola. C’era odore di seta, velluto, profumi, polvere e fiori secchi; l’incerta oscurità era rotta da un baluginio rosso e argento; improvvisamente innumerevoli piccole lampadine brillarono fra gli armadi aperti di un corridoio lungo e stretto che si perdeva nelle tenebre. A destra e a sinistra pendevano costumi di ogni genere; da una parte cavalieri, scudieri, contadini, cacciatori, dotti, orientali, buffoni, dall’altra dame di corte, castellane, contadine, cameriste, regine della notte. Sopra i costumi si vedevano i corrispondenti copricapo. Fridolin aveva l’impressione di passare fra due ali d’impiccati pronti a invitarsi a ballare. Gibiser lo seguiva. «Il signore desidera qualcosa di particolare? Louis Quatorze, Directoire, antico tedesco?». «Ho bisogno di un saio scuro e di una mascherina nera, nient’altro». In quel momento dal fondo del corridoio si sentì un tintinnio di vetro. Fridolin fissò spaventato il mascheraio, come se questi fosse obbligato a un chiarimento immediato. Ma Gibiser rimase impassibile, cercò a tastoni un interruttore nascosto da qualche parte... e un chiarore abbacinante si riversò subito fino in fondo al corridoio illuminando un piccolo tavolo apparecchiato con piatti, bicchieri e bottiglie. Da due sedie a destra e a sinistra si alzarono due giudici della Sacra Veme in abito talare rosso, mentre nello stesso istante scompariva una graziosa creatura tutta bianca. Gibiser si precipitò a grandi passi in quella direzione, allungò la mano sopra al tavolo e afferrò una parrucca bianca; contemporaneamente sbucò da sotto il tavolo una ragazza graziosa e giovanissima, quasi una bambina, in costume da Pierrette con calze di seta bianche; attraversò correndo il corridoio e raggiunse Fridolin che fu costretto a prenderla fra le braccia. Gibiser aveva lasciato cadere sul tavolo la parrucca e tratteneva a destra e a sinistra per le toghe i giudici della Veme. Allo stesso tempo esclamò rivolto a Fridolin: «Signore, mi tenga ferma quella ragazzina». La piccola si stringeva a Fridolin, come a chiedere protezione. Sul suo visino magro, bianco e incipriato spiccavano i finti nei; dal seno delicato saliva un profumo di rose e di cipria; i suoi occhi sorridevano di furberia e di piacere. «Lor signori rimarranno qui finché non li avrò consegnati alla polizia» esclamò Gibiser. «Che le salta in mente?» dissero i due. E a una voce: «Abbiamo aderito a un invito della signorina». Gibiser li mollò e Fridolin sentì che diceva loro: «Esigo comunque un chiarimento. O non si sono subito accorti di aver a che fare con una pazza?» e rivolto a Fridolin: «Scusi l’incidente, signore». «Oh, non importa» disse Fridolin. Avrebbe preferito restar lì o portar via con sé la piccola, in qualsiasi luogo e a prezzo di qualsiasi conseguenza. La ragazza lo guardava con occhi seducenti e infantili, come ammaliata. I giudici della Veme parlavano animatamente tra loro in fondo al corridoio, Gibiser si rivolse con fare serio a Fridolin e chiese: «Desidera dunque una tonaca, signore, un cappello da pellegrino, una mascherina?». «No», disse la Pierrette con occhi raggianti «al signore devi dare un mantello di ermellino e un farsetto di seta rossa». «Tu non muoverti di qui» l’interruppe Gibiser, e tirò fuori una tonaca scura appesa fra un lanzichenecco e un senatore veneziano. «Questa è la sua misura, ed ecco il cappello adatto, tenga, presto». Ora si fecero sentire di nuovo i giudici della Veme. «Ci faccia uscire immediatamente, signor Scibisé» - con sorpresa di Fridolin essi pronunciarono il nome Gibiser alla francese. «Neanche per idea» rispose beffardo il mascheraio; «per il momento avranno la cortesia di attendere qui il mio ritorno». Nel frattempo Fridolin s’infilò la tonaca, annodò le due estremità del cordone bianco penzolante; Gibiser, in piedi su una piccola scala, gli diede il cappello nero a larghe tese da pellegrino, e Fridolin se lo mise in testa; ma compiva tutte quelle azioni come fosse costretto, poiché sentiva con sempre maggior forza che era suo dovere restare là e aiutare la Pierrette minacciata da qualche pericolo. La mascherina che Gibiser gli diede, e che si provò subito, emanava un profumo strano e un po’ ripugnante. «Precedimi» disse Gibiser alla piccola e indicò imperiosamente la scala. Pierrette si voltò, gettò uno sguardo in fondo al corridoio e si congedò accennando un saluto gaio ma velato di malinconia. Fridolin seguì il suo sguardo; ora non c’erano più i giudici della Veme, ma due giovani snelli, in frac e cravatta bianca, che tuttavia avevano ancora le mascherine rosse sul viso. Pierrette scese agilmente la scala a chiocciola, dopo di lei Gibiser, infine Fridolin. Nell’anticamera, Gibiser aprì una porta che conduceva alle stanze interne e disse a Pierrette: «Per ora vai a letto, creatura abietta, ci vedremo non appena avrò fatto i conti con quei signori di sopra». Bianca e delicata era ferma sulla porta, lanciò un’occhiata a Fridolin e scosse tristemente la testa. In un grande specchio a muro sulla destra, Fridolin vide un pellegrino magro che non era altri che lui, e si meravigliò che tutto procedesse così naturalmente. Pierrette era scomparsa, il vecchio mascheraio aveva chiuso la porta alle sue spalle. Poi aprì quella dell’appartamento e costrinse Fridolin a uscire sul pianerottolo. «Mi scusi», disse Fridolin «quanto le devo?...». «Lasci pure, signore, mi pagherà alla riconsegna, mi fido di lei». Ma Fridolin non si mosse. «Giuri che non farà nulla di male a quella povera ragazza!». «Che gliene importa, signore?». «Poco fa ho sentito che definiva pazza la piccola, e adesso l’ha chiamata creatura abietta. Una sorprendente contraddizione, non può negarlo». «Ebbene, signore», replicò Gibiser con tono teatrale «non è forse il pazzo un abietto dinanzi a Dio?». Fridolin rabbrividì disgustato. «Comunque sia», osservò poi «si troverà un rimedio. Sono un medico. Domani riparleremo della cosa». Gibiser rise beffardo e in silenzio. Sul pianerottolo si accese improvvisamente la luce, la porta fra Gibiser e Fridolin si chiuse e fu subito sbarrata. Mentre scendeva le scale Fridolin si liberò del cappello, della tonaca e della mascherina, e prese tutto sotto braccio. Il portiere aprì il portone, la carrozza funebre era ferma di fronte, il cocchiere immobile a cassetta. Nachtigall si affrettava proprio allora a lasciare il caffè, e non sembrò troppo piacevolmente sorpreso di trovare Fridolin puntuale all’appuntamento. «Allora, ti sei veramente procurato un costume?». «Come vedi! E la parola d’ordine?». «Dunque insisti?». «Assolutamente». «Bene... la parola d’ordine è Danimarca». «Sei matto, Nachtigall?». «Perché mai?». «Niente, niente... quest’estate sono stato per caso sulla costa danese. Allora monta... ma non subito, dammi il tempo di noleggiare una carrozza qui di fronte». Nachtigall annuì, si accese con calma una sigaretta. Nel frattempo Fridolin attraversò in fretta la strada, prese un fiacre e con tono ingenuo, quasi si trattasse di uno scherzo, ordinò al cocchiere di seguire la carrozza funebre che si avviava proprio allora poco più avanti. Passarono per la Alserstrasse, poi sotto un viadotto ferroviario dirigendosi verso la periferia e proseguirono per strade secondarie deserte e male illuminate. Fridolin pensò all’eventualità che il cocchiere perdesse le tracce della carrozza funebre; ma ogni volta che dal finestrino aperto sporgeva la testa nell’aria insolitamente calda, vedeva sempre l’altra vettura ad una certa distanza davanti a loro, il cocchiere dall’alto cilindro nero immobile a cassetta. Potrebbe anche finir male, pensò Fridolin mentre sentiva ancora il profumo di rose e cipria del seno di Pierrette. Quale strano romanzo ho mai sfiorato? si domandò. Forse non sarei dovuto andar via, non dovevo lasciarla sola. Ma dove mi trovo ora? Salivano lentamente passando fra ville modeste. Ora Fridolin credette di orientarsi, in tempi passati si era talvolta spinto fin là durante le sue passeggiate: forse avevano preso la strada del Galitzinberg. A sinistra, nella valle, vide brillare, sfumate nella nebbia, le mille luci della città. Sentì rumore di ruote e guardò indietro dal finestrino. Fu contento che due vetture lo seguissero, così non poteva destare alcun sospetto nel cocchiere della carrozza funebre. All’improvviso la carrozza voltò di lato con un poderoso scossone e cominciò a scendere come in una gola fra cancelli, muri e pendii. Fridolin pensò ch’era ormai tempo di mascherarsi. Si tolse la pelliccia e indossò il saio, proprio come usava fare ogni mattina nel suo reparto d’ospedale quando s’infilava il camice; e si sentì come sollevato al pensiero che fra poche ore, se tutto andava bene, avrebbe fatto il suo giro come ogni giorno fra i letti dei suoi malati - un medico pronto a soccorrere. La carrozza si fermò. Se non scendessi affatto, pensò Fridolin... e tornassi invece subito indietro? Ma dove andare? Dalla piccola Pierrette? Dalla donnina nella Buchfeldgasse? O da Marianne, la figlia del defunto? Oppure a casa? E si accorse con leggero raccapriccio che nessun altro posto lo attirava meno di casa sua. O era così perché la strada di casa gli sembrava la più lunga? No, non posso tornare indietro, pensò. Avanti, in ogni caso, anche a costo di morire! Rise della parola grossa, ma non si sentiva certo in vena di scherzare. Il cancello di un giardino era spalancato. La carrozza funebre dinanzi a lui s’inoltrò più giù nella gola, o nell’oscurità che gli faceva tale effetto. Nachtigall, comunque, doveva essere già sceso. Fridolin smontò a sua volta in fretta, ordinò al cocchiere di attendere il suo ritorno sulla curva prima della discesa, anche se si tratteneva a lungo. E per sentirsi più sicuro lo pagò largamente in anticipo e gli promise la stessa somma per il viaggio di ritorno. Intanto giunsero le carrozze che seguivano la sua. Dalla prima Fridolin vide scendere una donna velata; poi entrò nel giardino e si mise la mascherina; uno stretto sentiero, illuminato dalla casa, conduceva al portone, due battenti si spalancarono e Fridolin si trovò in un piccolo atrio bianco. Fu accolto da un suono di armonium, a destra e a sinistra c’erano due servitori in livrea scura, il volto coperto da una mascherina grigia. «Parola d’ordine?» gli fu sussurrato a due voci. «Danimarca» rispose. Uno dei servitori prese la sua pelliccia e sparì in una stanza attigua, l’altro aprì una porta e Fridolin entrò in un salone in penombra, quasi buio, le pareti rivestite di seta nera. Alcune maschere, tutte in costumi ecclesiastici, andavano qua e là; erano circa sedici, venti persone, monaci e monache. L’armonium suonava una melodia sacra italiana che, crescendo dolcemente, sembrava scendere dall’alto. In un angolo della sala era fermo un gruppetto di tre monaci e due monache; lo guardarono di sfuggita ma distolsero subito lo sguardo, quasi di proposito. Fridolin si accorse di essere l’unico ad avere il capo coperto, si tolse il cappello da pellegrino e passeggiò avanti e indietro, cercando di dare il meno possibile nell’occhio; un monaco gli sfiorò il braccio e salutò con un cenno del capo; ma da dietro la mascherina uno sguardo penetrante si fissò per un secondo negli occhi di Fridolin. Fu avvolto da un profumo strano, eccitante, come di giardini del Sud. Un braccio lo sfiorò di nuovo. Questa volta quello di una monaca. Come gli altri portava anche lei un velo nero che le cingeva la fronte, il capo e la nuca, sotto il merletto di seta nera della mascherina splendeva una bocca rosso sangue. Dove mi trovo? pensò Fridolin. Tra folli? Tra congiurati? Sono capitato in una riunione di qualche setta religiosa? Avevano forse pagato Nachtigall perché portasse con sé un non iniziato di cui volevano farsi beffe? Tuttavia, per essere quello uno scherzo di carnevale, tutto gli sembrò troppo serio, troppo monotono, troppo sinistro. All’armonium si era aggiunta una voce femminile, un’antica aria religiosa italiana risuonò nella sala. Erano tutti fermi, sembravano ascoltare, anche Fridolin si abbandonò per un attimo a quella melodia meravigliosa e crescente. Improvvisamente una voce di donna sussurrò alle sue spalle: «Non si volti. Fa ancora in tempo ad allontanarsi. Lei è estraneo all’ambiente. Se la scoprissero, per lei finirebbe male». Fridolin trasalì. Per un secondo pensò di seguire l’avvertimento. Ma la curiosità, l’attrazione e soprattutto il suo orgoglio furono più forti di ogni riflessione. Ormai sono giunto fino a questo punto, pensò, finisca come vuole. E scosse la testa in senso di diniego, senza voltarsi. La voce dietro di lui sussurrò: «Mi dispiacerebbe per lei». Ora si voltò. Vide la bocca rosso sangue luccicare attraverso i merletti, due occhi scuri s’immersero nei suoi. «Resterò» disse con un tono eroico a lui stesso ignoto, e volse di nuovo altrove lo sguardo. Il canto cresceva meravigliosamente, il suono dell’armonium aveva ora un timbro nuovo, non più religioso ma profano, e scrosciava esuberante come un organo; guardandosi intorno Fridolin notò che tutte le monache erano sparite ed in sala si trovavano solo monaci. Frattanto anche la voce aveva abbandonato la sua cupa serietà e, con un abile gorgheggio in crescendo, si era trasformata in un canto limpido ed esultante, ma invece dell’armonium aveva preso a suonare, mondano e sguaiato, un pianoforte; Fridolin riconobbe subito il tocco selvaggio ed eccitante di Nachtigall; la voce femminile, poco prima così nobile e dolce, con un acuto e voluttuoso grido finale si era, per così dire, librata in aria e dissolta nell’eternità. A destra e a sinistra si erano aperte delle porte, da un lato Fridolin riconobbe i contorni sfumati di Nachtigall al pianoforte; nella sala di fronte, illuminata invece di una luce accecante, c’erano donne immobili, il capo, la fronte ed il collo avvolti in veli scuri, mascherine nere di pizzo sul viso, ma per il resto completamente nude. Gli occhi di Fridolin erravano cupidi dalle formose alle snelle, dalle delicate alle splendide e fiorenti; e poiché ognuna di quelle figure nude restava pur sempre un segreto e dalle mascherine nere grandi occhi si volgevano raggianti verso di lui come il più insolubile degli enigmi, l’ineffabile piacere della vista gli si trasformava in un quasi insopportabile tormento di desiderio. Ma anche gli altri dovevano provare la stessa sensazione. I primi sospiri estasiati si mutarono in gemiti che sembravano originati da profondo dolore; da qualche parte si levò un grido; e improvvisamente, come se fossero inseguiti, i monaci lasciarono la sala in penombra non più vestiti delle loro tonache, ma in festosi costumi da cavalieri bianchi, gialli, azzurri, rossi e si precipitarono tutti verso le donne che li accolsero con risate furenti, quasi malvage. Fridolin era l’unico ad essere rimasto in abito da monaco e si allontanò furtivamente, piuttosto impaurito, nell’angolo più lontano dove si trovò vicino a Nachtigall che gli volgeva le spalle. Fridolin vide che Nachtigall aveva una benda sugli occhi, ma allo stesso tempo credette di notare che dietro quella benda i suoi occhi si fissassero penetranti nel grande specchio di fronte nel quale i variopinti cavalieri volteggiavano con le loro ballerine nude. A un tratto una delle donne si fermò accanto a Fridolin e sussurrò - poiché nessuno parlava forte, come se anche le voci dovessero restare un segreto: «Perché così solo? Perché non partecipi al ballo?». Fridolin vide che da un altro angolo due gentiluomini lo osservavano insistentemente e sospettò che la creatura accanto a lui - snella e dal corpo fanciullesco - fosse stata mandata per metterlo alla prova e tentarlo. Ciò nonostante aprì le braccia e voleva attirarla a sé, quando un’altra delle donne si staccò dal suo ballerino e corse verso Fridolin. Capì subito che si trattava di colei che lo aveva messo in guardia poco prima. La donna fece finta di vederlo per la prima volta e sussurrò, ma così chiaramente che la si dovette udire anche nell’angolo opposto: «Sei tornato finalmente?». E ridendo divertita: «Non c’è più nulla da fare, sei stato scoperto». Poi rivolta alla ragazza dal corpo fanciullesco: «Concedimelo solo per due minuti. Dopo potrai averlo di nuovo, fino al mattino, se vuoi». E più a bassa voce, quasi con gioia: «È lui, è proprio lui». L’altra stupita: «Davvero?» e raggiunse con passo leggero i cavalieri. «Non fare domande», disse ora a Fridolin la donna che gli era rimasta accanto «e non meravigliarti di nulla. Ho cercato di sviarli, ma ti dico subito che non mi riuscirà ancora per molto. Fuggi prima che sia troppo tardi. E ogni attimo può essere troppo tardi. Bada che non seguano le tue tracce. Nessuno deve venire a sapere chi sei. La tua tranquillità, la pace della tua esistenza sarebbero finite per sempre. Vai!». «Ti rivedrò?». «Impossibile». «Allora resto». Il suo corpo nudo fu scosso da un tremito che gli si trasmise e quasi gli ottenebrò i sensi. «Non può essere in gioco più della mia vita», disse «e in questo momento tu vali la mia vita». Le prese le mani e cercò di attirarla a sé. La donna sussurrò di nuovo, come disperata: «Va’!». Fridolin rise e sentì l’eco del suo riso, come in sogno. «Vedo bene dove mi trovo. Non vi siete certo riuniti solo perché uno si inebri a guardarvi! Tu vuoi soltanto beffarti di me per farmi impazzire del tutto». «Fra poco sarà troppo tardi, va’!». Egli non voleva ascoltarla. «Non ci sono forse delle stanze segrete in cui si ritirano le coppie che hanno fatto amicizia? O alla fine si congederanno tutti con un cortese baciamano? Non fanno certo quest’impressione». E accennò alle coppie che al suono furioso del pianoforte continuavano a ballare nella sala accanto splendente di luce: corpi bianchi, ardenti, stretti in sete azzurre, rosse, gialle. Gli sembrò che ora nessuno si curasse di lui e della donna che aveva accanto; erano completamente soli nel salone centrale semibuio. «Speranza vana» ella mormorò. «Qui non ci sono stanze come le sogni tu. È l’ultimo minuto utile. Fuggi!». «Vieni con me». La donna scosse violentemente la testa, come disperata. Fridolin rise di nuovo e non riconobbe il suo riso. «Vuoi prendermi in giro. Questi uomini e queste donne sarebbero dunque venuti qui solo per eccitarsi reciprocamente e poi respingersi? Chi può proibirti di venir via con me, se vuoi?». Ella trasse un profondo respiro e chinò il capo. «Ah, ora capisco» disse lui. «È questa la pena che avete stabilito per chi s’introduce qui senza invito. Non ne avreste potuto escogitare una più crudele. Risparmiamela. Graziami. Infliggimi un’altra punizione che non sia quella di dover andar via senza di te!». «Sei pazzo. Non posso allontanarmi di qui né con te né con qualsiasi altro. E chi volesse tentare di seguirmi perderebbe la sua e la mia vita». Fridolin era come ubriaco non solo di lei, del suo corpo profumato, della sua bocca rossa e ardente, non solo dell’atmosfera di quel luogo, dei segreti voluttuosi che lo circondavano; si sentiva ebbro e allo stesso tempo assetato di tutte le esperienze di quella notte, nessuna delle quali si era conclusa; ebbro di se stesso, della sua audacia, della trasformazione che sentiva avvenire in sé. Sfiorò il velo che avvolgeva il capo della donna, quasi volesse toglierglielo. Lei gli fermò le mani: «Una notte saltò in mente a qualcuno di allontanare durante il ballo il velo dal viso di una di noi. Gli fu strappata la mascherina e fu cacciato a frustate». «E... la donna?». «Forse hai letto di una ragazza giovane e bella... è successo solo poche settimane fa, che si è avvelenata il giorno prima delle nozze». Fridolin ricordava persino il nome. Lo disse. Non si trattava di una ragazza di famiglia principesca che era stata fidanzata con un principe italiano? Ella annuì. A un tratto comparve uno dei cavalieri, il più distinto di tutti, l’unico in costume bianco; con un inchino breve e cortese ma allo stesso tempo imperioso, invitò a ballare la donna con cui Fridolin stava parlando. A Fridolin sembrò ch’ella esitasse un istante. Ma l’altro l’aveva già cinta alla vita e aveva raggiunto volteggiando le altre coppie che ballavano nella vicina sala illuminata. Fridolin si trovò solo, e quella solitudine improvvisa lo assalì come un gelo. Si guardò intorno. In quel momento nessuno sembrava curarsi di lui. Forse c’era ancora un’ultima possibilità di allontanarsi incolume. Non riusciva a capire cosa mai lo tenesse tuttavia inchiodato nel suo angolo, dove poteva per ora sentirsi inosservato: il timore di una ritirata ingloriosa e un po’ ridicola, il desiderio tormentoso e inappagato di quel meraviglioso corpo femminile, il cui profumo continuava a sfiorarlo; oppure il pensiero che gli avvenimenti precedenti erano solo serviti a provare il suo coraggio e che alla fine gli sarebbe toccata in premio quella magnifica donna? Comunque, si rendeva conto di non poter sopportare più a lungo quello stato di tensione, e di doverne uscire sfidando ogni pericolo. Qualsiasi decisione prendesse non poteva costargli la vita. Forse si trovava tra pazzi, forse tra libertini, sicuramente non tra furfanti o delinquenti. Gli venne l’idea di avvicinarsi a loro, confermare di essere un intruso e dichiararsi pronto a risolvere la questione secondo il codice d’onore. Solo così, con una specie di finale maestoso, poteva concludersi quella notte, se doveva significare qualcosa di più di una vaga e confusa successione di avventure malinconiche, squallide, ridicole e lascive, nessuna delle quali era stata tuttavia vissuta fino in fondo. E con un sospiro di sollievo si accinse ad attuare il suo proposito. Ma in quell’attimo qualcuno accanto a lui mormorò: «Parola d’ordine!». Un cavaliere nero gli si era avvicinato all’improvviso, e poiché Fridolin non aveva risposto subito, ripetè la domanda. «Danimarca» disse Fridolin. «Giusto, signore, questa è la parola d’ordine d’ingresso. E quella interna, se è lecito?». Fridolin taceva. «Non vuole avere la bontà di dirci la parola d’ordine della casa?» aggiunse con tono tagliente. Fridolin si strinse nelle spalle. L’altro avanzò al centro della sala, alzò la mano, il pianoforte tacque, il ballo s’interruppe, si avvicinarono altri due cavalieri, l’uno in giallo, l’altro in rosso. «Parola d’ordine, signore» dissero simultaneamente. «L’ho dimenticata» rispose Fridolin con un sorriso vuoto e si sentì tranquillo. «È una disgrazia», disse l’uomo in giallo «aver dimenticato la parola d’ordine equivale per noi a non averla mai saputa». Affluirono in sala gli altri uomini in maschera, le porte da entrambi i lati si chiusero. Fridolin era il solo in abito da monaco fra cavalieri variopinti. «Giù la maschera!» dissero alcuni simultaneamente. Fridolin allungò le braccia come per proteggersi. Essere il solo a viso scoperto fra gli altri mascherati gli sarebbe sembrato mille volte peggio che trovarsi improvvisamente nudo fra gente vestita. E con voce decisa disse: «Se qualcuno dei signori dovesse sentirsi offeso nel suo onore per la mia presenza qui, mi dichiaro pronto a dargli soddisfazione nella maniera consueta. Ma toglierò la mascherina solo se tutti loro faranno altrettanto». «Qui non si tratta di soddisfazione», disse il cavaliere in rosso che finora non aveva ancora parlato «ma di castigo». «Giù la maschera!» ingiunse di nuovo un altro con voce chiara e insolente che ricordò a Fridolin il tono di comando di un ufficiale. «Vogliamo dirle in faccia e non sulla maschera ciò che l’attende». «Non me la tolgo», disse Fridolin in tono ancora più drastico «e guai a chi osa toccarmi». Un braccio si protese a un tratto verso il suo viso come per strappargli la maschera, quando improvvisamente una delle porte si aprì e comparve una donna sulla cui identità Fridolin non poteva avere dubbi; era in costume da suora, così come l’aveva vista la prima volta. Ma dietro di lei, nella sala sgargiante di luci, si potevano vedere le altre, nude, i volti velati, pigiate fra loro e mute, una schiera impaurita. La porta si richiuse subito. «Lasciatelo», disse la suora «sono pronta a riscattarlo». Ci fu un silenzio breve e profondo, come se fosse accaduto qualcosa d’immane, poi il cavaliere nero che aveva chiesto per primo a Fridolin la parola d’ordine, si rivolse alla monaca dicendo: «Conosci le conseguenze di questo tuo atto?». «Le conosco». Come un profondo sospiro di sollievo attraversò la sala. «Lei è libero», disse il cavaliere a Fridolin «abbandoni subito questa casa e si guardi bene dall’indagare oltre sui segreti che ha cercato di penetrare. Se dovesse tentare di mettere qualcuno sulle nostre tracce, riesca o no il tentativo, lei sarebbe perduto». Fridolin era immobile. «In che modo... questa donna dovrebbe riscattarmi?» chiese. Nessuna risposta. Alcune braccia indicarono la porta, facendogli capire che doveva allontanarsi senza indugi. Fridolin scosse la testa. «Mi infliggano la pena che vogliono, signori, non tollererò che un altro essere umano paghi per me». «Non potrebbe più mutare la sorte di questa donna», disse allora pacatamente il cavaliere nero «quando qui si è preso un impegno non si può più tornare indietro». La monaca annuì piano, come a confermare. «Va’!» disse a Fridolin. «No» rispose questi alzando la voce. «La vita non ha più valore per me, se devo andar via di qui senza di te. Non chiedo donde vieni, né chi sei. Che può importare loro, miei sconosciuti signori, recitare fino in fondo questa commedia carnevalesca, anche se mira ad avere un finale serio? Chiunque loro siano, signori, conducono comunque anche un’altra vita, diversa da questa. Io però non recito alcuna commedia, neanche stasera, e se finora sono stato costretto a farlo, adesso smetto. Sento di essermi imbattuto in un destino che non ha più nulla a che fare con questa mascherata, rivelerò loro il mio nome, mi toglierò la maschera prendendo su di me tutte le conseguenze». «Guàrdati dal farlo!» esclamò la monaca. «Ti perderesti senza salvarmi! Va’!» e rivolta agli altri: «Eccomi, sono vostra... di tutti!». Il costume scuro scivolò via come d’incanto, la donna apparve in tutto lo splendore del suo corpo bianco, afferrò il velo che le cingeva la fronte, il capo e il collo e se ne liberò con un meraviglioso gesto circolare. Il velo si posò a terra, mentre capelli scuri le cadevano sulle spalle, sul seno e sui fianchi, ma prima ancora di poter cogliere l’immagine del suo viso, Fridolin fu afferrato da braccia robuste, trascinato via e spinto verso la porta; un attimo dopo era nell’atrio, la porta si richiuse alle sue spalle, un servitore mascherato gli portò la pelliccia e lo aiutò ad indossarla mentre il portone si apriva. Si allontanò in fretta come spinto da una forza invisibile, si trovò in strada, la luce dietro di lui si spense, si guardò intorno e scorse la casa silenziosa con le finestre chiuse da cui non trapelava alcun lume. Bisogna che mi fissi bene in mente ogni cosa, pensò innanzi tutto. Devo ritrovare la casa, il resto si vedrà dopo. Era avvolto dalle tenebre; più in alto, a una certa distanza, là dove doveva attenderlo la sua carrozza, si vedeva la luce rosso cupo di una lanterna. Dal fondo della strada avanzò la carrozza funebre, quasi l’avesse chiamata. Un servitore aprì la portiera. «Ho la mia carrozza» disse Fridolin. Il servitore scrollò la testa. «Se è andata via, ritornerò in città a piedi». Il servitore rispose con un gesto della mano così poco servile da escludere ogni opposizione. Il cilindro del cocchiere si ergeva ridicolmente alto nella notte. Il vento soffiava forte, nel cielo volavano nuvole violette. Dopo le precedenti esperienze Fridolin non poteva illudersi di avere altra scelta se non salire su quella carrozza, che si mise subito in moto. Si sentiva deciso a far luce, a suo rischio, su quell’avventura non appena fosse possibile. Gli sembrava che la vita non avesse più alcun senso se non gli riusciva di ritrovare la misteriosa donna che in quel momento stava pagando il prezzo della sua salvezza. E di che prezzo si trattasse, era fin troppo facile immaginarselo. Ma che ragione aveva di sacrificarsi per lui? Sacrificarsi...? Ma era poi una donna per la quale ciò che la minacciava, ciò che stava ora subendo poteva significare un sacrificio? Se partecipava a quei convegni - e non era certo oggi la prima volta, poiché conosceva così bene le consuetudini della casa -, che poteva importarle di sottostare alle voglie di uno o di tutti quei cavalieri? Sì, poteva mai esser altro che una prostituta? Potevano tutte quelle donne essere qualcos’altro? Prostitute non c’era dubbio. Anche se accanto a quella che era appunto una vita da prostitute ne conducevano un’altra, per così dire, borghese. E tutto ciò che aveva appena vissuto non era forse un infame scherzo che si erano permessi con lui? Uno scherzo già previsto, preparato, forse addirittura studiato per chi si fosse introdotto là senza invito? Eppure, se ripensava a quella donna che lo aveva messo in guardia sin dal primo momento e ora era pronta a pagare per lui... nella voce, nel portamento, nella regale nobiltà del suo corpo nudo c’era qualcosa che non poteva assolutamente essere falso. O era bastata forse solo l’improvvisa apparizione di lui, di Fridolin, a operare in lei il miracolo di una trasformazione? Dopo tutte le avventure di quella notte ritenne possibile - era sicuro di non peccare di vanità - anche un miracolo simile. Forse ci sono ore, notti, pensò, in cui anche da uomini che in circostanze normali non hanno alcun particolare ascendente sull’altro sesso, si sprigiona un tale fascino strano e irresistibile? La carrozza continuava a risalire il colle, normalmente avrebbe dovuto già da tempo voltare nella strada principale. Che intenzioni avevano nei suoi confronti? Dove doveva condurlo la carrozza? La commedia doveva forse avere ancora un séguito? Di che genere? Era prevista forse una chiarificazione? Il lieto ritrovarsi in un altro posto? Il premio dopo il brillante superamento della prova, l’ammissione nella società segreta? Il possesso indisturbato della splendida monaca...? I finestrini erano chiusi, Fridolin cercò di guardar fuori; erano opachi. Voleva aprirli, provò a destra, a sinistra, impossibile; opaca e chiusa era anche la lastra di vetro che lo divideva dalla cassetta. Picchiò sui vetri, chiamò, gridò, la carrozza continuava la sua corsa. Tentò di aprire le portiere, a destra, a sinistra, non cedettero a nessuna pressione, i suoi ripetuti richiami si smorzarono nel cigolio delle ruote, nel sibilare del vento. La carrozza cominciò a sobbalzare, procedeva in discesa, sempre più veloce, Fridolin in preda ad agitazione ed angoscia stava per fracassare uno dei finestrini opachi, quando la vettura si fermò all’improvviso. Le due portiere si aprirono contemporaneamente come mosse da un meccanismo, quasi ad offrire beffardamente a Fridolin la scelta fra destra e sinistra. Smontò, le portiere si chiusero, e senza che il cocchiere si curasse affatto di lui la carrozza si allontanò nella notte per l’aperta campagna. Il cielo era coperto, le nuvole correvano veloci, il vento soffiava, Fridolin si trovava sulla neve che diffondeva tutt’intorno un pallido chiarore. Era solo, la pelliccia aperta sulla tonaca da monaco, il cappello da pellegrino in testa, e non si sentiva proprio a suo agio. Poco distante correva un’ampia strada. Una processione di lampioni dalle luci incerte ed oscillanti segnava la direzione della città. Fridolin si avviò e, per potersi ritrovare il più presto possibile fra la gente, accorciò il cammino attraversando la campagna coperta di neve e leggermente in declino. Coi piedi completamente bagnati giunse in una stradina stretta e semibuia, camminò dapprima fra alti steccati che scricchiolavano al vento; dopo il primo angolo si trovò in una strada un po’ più larga dove si alternavano rade casette e cantieri edili vuoti. Dall’orologio di un campanile rintoccarono le tre del mattino. Qualcuno gli veniva incontro, un tipo in giacca corta, le mani nelle tasche dei pantaloni, la testa incassata fra le spalle, il cappello calcato sugli occhi. Fridolin si tenne pronto a rintuzzare un’eventuale aggressione, ma, inaspettatamente, il vagabondo fece dietrofront e scappò. Che significa questo? si chiese Fridolin. Poi pensò che doveva avere un aspetto abbastanza sinistro, si tolse il cappello da pellegrino, si abbottonò il cappotto, sotto cui ciondolava fin sopra le caviglie l’abito da monaco. Voltò di nuovo; si trovava in una strada periferica, un uomo in abito campagnolo gli passò accanto e lo salutò come si saluta un prete. Il raggio di luce di un lampione cadeva sull’insegna stradale della casa all’angolo. Liebhartstal - dunque non molto lontano dalla casa che aveva lasciato nemmeno un’ora prima. Per un secondo fu allettato dall’idea di tornare indietro e attendere nei pressi della villa lo sviluppo degli avvenimenti. Ma desistette subito, considerando che si sarebbe esposto a un grave pericolo senza tuttavia avvicinarsi di più alla soluzione dell’enigma. Il pensiero di quel che doveva svolgersi in quel momento nella villa lo riempì di rabbia, disperazione, vergogna e paura. Quello stato d’animo era così insopportabile che quasi gli dispiacque di non essere stato aggredito dal vagabondo incontrato poco prima e di non giacere presso uno steccato nella stradina sperduta con un coltello confìtto fra le costole. Così quella assurda notte con le sue avventure insulse ed incompiute avrebbe almeno avuto, alla fine, una specie di significato. Ritornare a casa, come stava per fare, gli sembrò addirittura ridicolo. Ma non era ancora tutto perduto. C’era tempo anche domani. Giurò di non darsi pace prima di aver ritrovato la bella donna, la cui nudità abbagliante lo aveva inebriato. E solo allora pensò ad Albertine - ma come se fosse anche lei una donna da conquistare, quasi che Albertine non potesse o non dovesse essere di nuovo sua prima che egli l’avesse tradita con tutte le altre di quella notte: con la donna nuda, con la Pierrette, con Marianne, con la prostituta del vicolo. E non doveva anche preoccuparsi di ritrovare quell’insolente studente che lo aveva urtato passando e sfidarlo a duello, alla sciabola, meglio ancora alla pistola? Che gli importava della vita di un altro o della propria? Bisognava metterla in gioco soltanto per dovere, per spirito di sacrificio, mai per capriccio, per passione o semplicemente per misurarsi col destino?! E si ricordò di nuovo che probabilmente portava già in sé il germe di una malattia mortale. Non sarebbe troppo stupido morire perché un bambino affetto da difterite ti ha tossito in faccia? Forse era già malato. Non aveva la febbre? In quel momento non era forse a letto, a casa... e tutto ciò che credeva di aver vissuto quella notte non era altro che delirio?! Fridolin aprì quanto più possibile gli occhi, si toccò la fronte e le guance, si tastò il polso. Appena accelerato. Tutto normale. Era completamente sveglio. Continuò per quella strada in direzione della città. Dietro di lui venivano alcuni carretti diretti al mercato, gli passarono accanto con fracasso; di quando in quando incontrava gente vestita poveramente per la quale la giornata cominciava a quell’ora. Dietro la finestra di un caffè, a un tavolo sul quale oscillava la fiamma di un lume a gas, stava seduto un uomo graSso, una sciarpa attorno al collo, la testa poggiata sulle mani, e dormiva. Le case erano ancora immerse nel buio, poche finestre isolate erano illuminate. Fridolin credette di sentire come gli uomini a poco a poco si svegliassero, gli sembrava quasi di vederli stirarsi nei letti e prepararsi ad affrontare la loro povera, dura giornata. Anch’egli stava per iniziare la sua, che non era però misera e triste. Con uno strano batticuore si rese conto con gioia che fra poche ore sarebbe passato in camice bianco fra i letti dei suoi malati. All’angolo era fermo un fiacre, il cocchiere dormiva a cassetta, Fridolin lo svegliò, gli diede il suo indirizzo e montò. QUINTO. Erano le quattro del mattino quando salì le scale di casa. Andò prima nello studio, ripose accuratamente il costume in un armadio e poiché voleva evitare che Albertine si destasse, si tolse le scarpe ed i vestiti prima di entrare in camera da letto. Accese senza far rumore la fioca lampada sul suo comodino. Albertine dormiva immobile, le braccia incrociate dietro la nuca, le labbra semiaperte, segnate da ombre di dolore; era un volto a lui sconosciuto. Si chinò sulla sua fronte, che subito s’aggrottò come se l’avesse toccata, i suoi tratti si deformarono stranamente; e all’improvviso, sempre nel sonno, scoppiò in una risata così stridula che Fridolin si spaventò. Istintivamente la chiamò per nome. Come per risposta ella rise di nuovo in modo del tutto strano, quasi sinistro. Fridolin la chiamò ancora una volta e più forte. Ora Albertine aprì gli occhi, lentamente, a fatica, e lo guardò fisso, come se non lo riconoscesse. «Albertine!» egli chiamò la terza volta. Solo allora lei sembrò tornare in sé. Il suo sguardo esprimeva difesa, paura e addirittura terrore. Levò le braccia in alto, senza senso e come disperata, la bocca rimase aperta. «Che ti succede?» chiese Fridolin col fiato sospeso. E poiché lei continuava a fissarlo terrorizzata, aggiunse come per calmarla: «Albertine, sono io». Albertine respirò profondamente, tentò di sorridere, lasciò ricadere le braccia sulla coperta e come trasognata chiese: «È già giorno?». «Fra poco» rispose Fridolin. «Sono le quattro passate. Sono rientrato in questo momento». Lei taceva. Egli continuò: «Il consigliere è morto. Era già in agonia quando sono arrivato, e naturalmente non potevo... lasciare subito soli i familiari». Ella annuì, ma sembrò averlo appena ascoltato o capito, fissava il vuoto come attraverso di lui, ed egli ebbe l’impressione, per quanto insensata potesse anche sembrargli subito quell’idea, che Albertine dovesse essere a conoscenza di tutte le sue avventure notturne. Si chinò su di lei e le sfiorò la fronte. Ella rabbrividì leggermente. «Che hai?» egli chiese di nuovo. Albertine scosse solo piano la testa. Fridolin le passò la mano sui capelli. «Albertine, che ti succede?». «Ho sognato» ella disse con distacco. «Che cosa?» chiese lui dolcemente. «Ah, tante cose. Non riesco bene a ricordarmene». «Forse ci riuscirai». «Era tutto così confuso... e ho sonno. Anche tu devi aver sonno, no?». «Nient’affatto, Albertine, probabilmente non dormirò più. Sai bene che quando rientro così tardi... la cosa più razionale sarebbe che mi mettessi subito a tavolino... proprio in queste ore mattutine...». S’interruppe. «Ma non vuoi raccontarmi piuttosto il tuo sogno?». E sorrise un po’ forzatamente. Ella rispose: «Tuttavia dovresti almeno distenderti un pochino». Fridolin esitò un attimo, poi fece come lei desiderava e si sdraiò al suo fianco. Ma si guardò bene dal toccarla. Una spada ci divide, pensò, ricordandosi di aver fatto una volta, in un’occasione simile, la stessa osservazione semischerzosa. Tacevano, stavano sdraiati con gli occhi aperti, sentendo la reciproca vicinanza-lontananza. Dopo un certo tempo egli appoggiò la testa sul braccio, la osservò a lungo, come se riuscisse a vedere oltre le semplici fattezze esteriori del viso. «Il tuo sogno!» disse a un tratto di nuovo, e fu come se lei avesse solo atteso quell’esortazione. Albertine gli diede una mano; lui la prese e, secondo l’abitudine, più distrattamente che con tenerezza, tenne strette come per gioco nelle sue le sottili dita di lei. Ma ella cominciò: «Ricordi la stanza nella piccola villa sul Wòrthersee, dove stavo coi miei genitori l’estate del nostro fidanzamento?». Fridolin annuì. «Così è cominciato il sogno: sono entrata in quella stanza non so bene da dove... come un’attrice in scena. Sapevo soltanto che i genitori erano in viaggio e mi avevano lasciata sola. La cosa mi stupiva, poiché l’indomani si dovevano celebrare le nostre nozze. Ma l’abito da sposa non era ancora arrivato. O forse mi sbagliavo? Aprii l’armadio per accertarmene, invece dell’abito da sposa erano appesi una gran quantità di altri vestiti, o meglio costumi, di quelli che si vedono all’opera, sfarzosi, orientali. Quale di questi devo indossare per le nozze? pensavo. Ma ecco che l’armadio improvvisamente si è richiuso od è scomparso, non ricordo più bene. La stanza era tutta illuminata, ma fuori della finestra era notte fonda... A un tratto sei comparso tu, eri venuto per mare accompagnato da galeotti, li vidi mentre si allontanavano nell’oscurità. Indossavi preziosi vestiti d’oro e seta, avevi al fianco un pugnale con pendagli d’argento e mi prendesti in braccio portandomi fuori attraverso la finestra. Adesso ero anch’io vestita splendidamente, come una principessa, stavamo all’aperto nella luce del crepuscolo e una nebbiolina grigia ci arrivava fino alle caviglie. Il paesaggio era quello a noi noto: da una parte il lago, sullo sfondo i monti, vedevo anche le ville, sembravano uscite da una scatola di balocchi. Noi due eravamo però sospesi in aria, no, volavamo al di sopra della nebbia, e io pensavo: questo è dunque il nostro viaggio di nozze. Poco dopo non volavamo più, camminavamo per un sentiero del bosco, quello che conduce alla Elisabethhöhe ed improvvisamente ci trovammo in alta montagna, in una specie di radura circondata da tre lati dal bosco mentre alle nostre spalle s’ergeva una ripida parete rocciosa. Ma sopra di noi c’era un cielo stellato così azzurro e sconfinato quale non esiste affatto nella realtà, e quello era il soffitto della nostra camera nuziale. Mi stringesti fra le braccia e mi amasti intensamente». «Anche tu, spero» disse Fridolin con un invisibile sorriso maligno. «Credo che ti amassi ancora più intensamente» rispose seria Albertine. «Ma, come spiegartelo... nonostante l’intensità dell’abbraccio, la nostra tenerezza era molto malinconica, come per il presentimento di un dolore ineluttabile. A un tratto fu giorno. Il prato era chiaro e variopinto, il bosco tutt’intorno deliziosamente bagnato di rugiada, e sopra la parete di roccia tremolavano i raggi del sole. Per noi era però giunta l’ora di tornare di nuovo nel mondo, tra gli uomini. Ma era accaduto qualcosa di terribile. I nostri vestiti erano spariti. Fui presa da un orrore senza pari, provavo una vergogna cocente fino all’annientamento interiore ed allo stesso tempo ira nei tuoi confronti, come se fossi tu il solo responsabile della sciagura; e tutti quei sentimenti: orrore, vergogna, ira, non erano paragonabili per intensità a nessuna sensazione che avessi mai provato da sveglia. Tu invece, conscio della tua colpa, scappasti via nudo com’eri per scendere a valle e procurare degli abiti. Quando sparisti mi sentii come più leggera. Non avevo compassione, né mi preoccupavo per te, ero contenta di essere sola, correvo felice sul prato e cantavo un motivo ascoltato al ballo in maschera. Avevo una voce meravigliosa e desideravo che mi sentissero giù in città. Non vedevo la città, ma sapevo della sua esistenza. Si trovava molto al di sotto di me, circondata da alte mura; era una città fantastica che non riesco a descrivere. Né orientale e neppure un’antica città tedesca e tuttavia un po’ dell’una e un po’ dell’altra, in ogni caso una città sepolta da tempo e per sempre. Improvvisamente mi trovai distesa sul prato nella luce del sole, molto più bella di quanto sia mai stata in realtà, e mentre ero là uscì dal bosco un signore, un giovane in un vestito chiaro, moderno, rassomigliava un po’, ora me ne rendo conto, a quel danese di cui ti ho parlato ieri. Andava per la sua strada, si limitò a salutarmi molto cortesemente quando mi passò davanti, si diresse subito verso la parete rocciosa e la osservò attentamente, come se pensasse al modo di superarla. Ma contemporaneamente vedevo anche te. Correvi nella città sepolta di casa in casa, di bottega in bottega, ora sotto portici ora per una specie di bazar turco e acquistavi per me le cose più belle che trovavi: vestiti, biancheria, scarpe, gioielli; e riponevi tutto in una borsa di cuoio giallo, piccola ma capiente. Ma eri sempre inseguito da una massa di gente, che non riuscivo a vedere, udivo solo le loro grida cupe e minacciose. Ed ecco che ricomparve l’altro, il danese che s’era fermato prima davanti alla parete di roccia. Veniva di nuovo dal bosco verso di me, sapevo che nel frattempo aveva attraversato il mondo intero. Sembrava un altro ed era tuttavia lo stesso. Si fermò come la prima volta davanti alla parete di roccia, sparì di nuovo, poi riapparve dal bosco, sparì, riapparve; la scena si ripetè due, tre o cento volte. Era sempre lo stesso e sempre un altro, salutava ogni volta che mi passava davanti, finalmente si fermò, mi fissò con sguardo indagatore, io risi allettante, come non ho mai riso in vita mia, lui allungò le braccia verso di me, ora volevo fuggire ma non mi riuscì, ed egli cadde accanto a me sul prato». Ella tacque. Fridolin aveva la gola asciutta, nell’oscurità della stanza notò che Albertine si teneva il viso come nascosto tra le mani. «Uno strano sogno» disse. «È già finito?». E poiché lei fece cenno di no: «Allora continua». «Non è così semplice» riprese Albertine. «Certe cose non si possono quasi esprimere a parole. Dunque... avevo l’impressione di vivere una serie innumerevole di giorni e notti, non esisteva né tempo né spazio, non mi trovavo più nella radura chiusa dal bosco e dalla roccia, ma in una pianura ampia e sconfinata, ricoperta di fiori variopinti, che si perdeva da tutti i lati all’orizzonte. Intanto da molto tempo - strano questo “da molto tempo”! - non ero più sola con quell’uomo sul prato. Ma non potrei dire se oltre me ci fossero ancora tre, dieci o mille coppie, se le abbia viste o no, se sia stata di quell’uomo soltanto od anche di altri. Tuttavia, come quel precedente sentimento di orrore e vergogna superava di molto tutto ciò che ci si può immaginare da svegli, così non c’è sicuramente nulla nella nostra vita cosciente che possa uguagliare la serenità, la libertà, la felicità che ho provato in questo sogno. Eppure non ti dimenticai neppure un attimo. Sì, ti vedevo, vidi quando fosti catturato, da soldati, mi pare, c’erano anche dei preti; qualcuno, un uomo gigantesco, ti legò le mani, sapevo che dovevi essere giustiziato. Lo sapevo senza provare pietà né orrore, con assoluto distacco. Ti condussero in un cortile, una specie di cortile di castello. Adesso stavi là con le mani legate dietro la schiena e nudo. E come io vedevo te, sebbene mi trovassi altrove, così tu vedevi me ed anche l’uomo che mi teneva tra le braccia, e tutte le altre coppie, quella infinita marea di nudità che mi spumeggiava intorno e di cui io e l’uomo che mi teneva abbracciata eravamo, per così dire, solo un’onda. Mentre dunque eri nel cortile del castello, ad un’alta finestra ad arco fra tendine rosse comparve una giovane donna con un diadema sul capo e un mantello di porpora. Era la principessa di quel paese. Ti lanciò uno sguardo severo e interrogativo. Eri solo, gli altri, per quanto fossero in molti, si tenevano in disparte, addossati ai muri, sentivo un mormorio, un borbottio insidioso e gravido di pericoli. In quel momento la principessa si sporse dal davanzale. Tutti tacquero e la principessa ti fece un cenno, come a ingiungerti di salire da lei, sapevo che era decisa a graziarti. Ma tu non notasti il suo sguardo o non volesti notarlo. A un tratto, sempre con le mani legate, ma avvolto in un mantello nero ti trovasti dinanzi a lei, non in una sala ma sospeso, per così dire, in aria. La principessa reggeva in mano una pergamena, la tua condanna a morte, in cui erano anche annotate le tue colpe ed i motivi della condanna. Ti chiese non udivo le parole e tuttavia lo sapevo se eri disposto a diventare il suo amante, nel qual caso ti veniva rimessa la condanna a morte. Scuotesti il capo in segno di diniego. Dal canto mio non mi meravigliai, la tua era una reazione perfettamente normale, né poteva essere altrimenti, dal momento che dovevi restarmi fedele per l’eternità e a costo di ogni pericolo. Allora la principessa si strinse nelle spalle, fece un cenno nel vuoto e ad un tratto ti trovasti in un sotterraneo; fruste calavano sibilando su di te, ma non vedevo coloro che le agitavano. Il sangue scorreva come in ruscelli dal tuo corpo, lo vedevo scorrere, ero consapevole della mia crudeltà senza meravigliarmene. Poi si avvicinò a te la principessa. I capelli sciolti le ricadevano sul corpo nudo, reggeva in mano il suo diadema e te lo offriva... sapevo che era la ragazza della spiaggia danese che avevi visto una mattina nuda sul terrazzino di un capanno. Non pronunciò parola, ma la sua presenza, addirittura il suo silenzio miravano a sapere se volevi diventare suo marito e il principe del paese. E poiché rifiutasti di nuovo, improvvisamente sparì; ma io vedevo che stavano rizzando una croce per te; non nel cortile del castello, no, sull’immenso prato cosparso di fiori, dove giacevo tra le braccia di un amante, fra tutte le altre coppie d’innamorati. Ti vedevo camminare solo per strade antiche, senza alcuna sorveglianza, ma sapevo che la tua via era tracciata e ogni fuga impossibile. Ora salivi per il sentiero del bosco. Ti attendevo tesa, ma senza alcuna compassione. Il tuo corpo era coperto di striature, che però non sanguinavano più. Salivi sempre più in alto, il sentiero si ampliava, il bosco si ritirava da entrambi i lati, e adesso ti trovavi ai margini del prato a una distanza immensa, inconcepibile. Tuttavia mi salutasti sorridendo con gli occhi, come a significarmi che avevi esaudito il mio desiderio e mi portavi tutto ciò di cui avevo bisogno: vestiti, scarpe, gioielli. Io però trovavo il tuo comportamento oltremodo stolto e insensato, ed ero tentata di dileggiarti, di riderti in faccia, proprio perché, per essermi fedele, avevi rifiutato la mano di una principessa, sopportato torture ed ora salivi barcollando lassù per patire una terribile morte. Ti corsi incontro, anche tu camminavi sempre più in fretta - cominciai a sollevarmi in aria, anche tu volavi; ma improvvisamente non ci vedemmo più, lo sapevo: ci eravamo perduti. Allora desiderai che almeno sentissi le mie risa mentre ti crocifiggevano. E così scoppiai a ridere, con tutto il vigore e la forza di cui ero capace. Con queste risa mi sono svegliata... Fridolin». Tacque e rimase immobile. Anch’egli non si mosse e non parlò. Qualsiasi parola sarebbe sembrata in quel momento insulsa, mendace e vile. Quanto più lei procedeva nel suo racconto, tanto più ridicole ed insignificanti gli apparivano le proprie avventure, almeno sino al punto in cui erano giunte, e giurò di portarle a termine tutte, di raccontargliele poi fedelmente e vendicarsi così di quella donna infedele, crudele e traditrice, che aveva rivelato nel sogno la sua reale natura, e che in quel momento credette di odiare più profondamente di quanto l’avesse mai amata. Allora si accorse di stringere ancora fra le mani le dita di lei e, sebbene fosse deciso a odiare quella donna, sentiva per le sue dita sottili, fredde e così familiari una tenerezza immutata, divenuta soltanto un po’ dolorosa; e istintivamente, quasi contro la sua volontà, prima di sciogliere dalle sue quella mano familiare, la sfiorò dolcemente con le labbra. Albertine non apriva ancora gli occhi, Fridolin ebbe l’impressione che ella sorridesse con un’espressione di felicità trasfigurata e innocente e provò un inspiegabile desiderio di chinarsi su di lei e baciarla sulla fronte pallida. Ma si dominò, sentendo che quel suo stato d’animo derivava solo dalla ben comprensibile stanchezza dopo gli sconvolgenti avvenimenti delle ultime ore; nell’ingannevole atmosfera della stanza matrimoniale quella stanchezza s’era tramutata in struggente tenerezza. Tuttavia, comunque si sentisse in quel momento, qualunque decisione avesse preso nel corso delle prossime ore, l’urgente imperativo del momento era: rifugiarsi, almeno per un certo tempo, nel sonno e nell’oblio. Anche la notte successiva alla morte della madre aveva dormito, aveva potuto dormire profondamente e senza sogni, perché mai non doveva riuscirgli ora? Si stese vicino ad Albertine che sembrò già essersi assopita. Una spada tra noi, pensò di nuovo. E poi: sdraiati fianco a fianco come nemici mortali. Ma erano solo parole. SESTO. Fu svegliato alle sette del mattino dalla cameriera che bussò piano alla porta. Gettò una rapida occhiata ad Albertine. Talvolta, non sempre, quei colpetti svegliavano anche lei. Oggi dormiva ancora, immobile, troppo immobile. Fridolin si preparò in fretta. Prima di uscire volle vedere la figlia. Dormiva tranquilla nel suo lettino bianco, le mani serrate a pugno com’è proprio dei bambini. La baciò sulla fronte. In punta di piedi entrò di nuovo in camera da letto, dove Albertine riposava immobile come poco prima. Poi uscì. Portava con sé, ben riposti nella sua borsa nera da medico, il saio e il cappello da pellegrino. Aveva preparato con cura, addirittura con una certa pedanteria, il programma della giornata. Prima di tutto doveva passare a visitare, proprio vicino a casa, un giovane avvocato gravemente ammalato. Fece una visita scrupolosa, trovò il malato alquanto migliorato, se ne rallegrò sinceramente e scrisse su una vecchia ricetta il consueto Repetatur. Poi andò subito a cercare il locale nel cui scantinato Nachtigall aveva suonato il piano la sera precedente. Era ancora chiuso, tuttavia la cassiera del caffè sapeva che Nachtigall abitava in un piccolo hôtel della Leopoldstadt. Un quarto d’ora dopo la carrozza di Fridolin si fermava davanti a una miserabile locanda. Nell’atrio c’era odore di letti sfatti, di lardo rancido e surrogato di caffè. Un portiere dall’aspetto equivoco, gli occhi scaltri cerchiati e rossi, abituato a essere interrogato dalla polizia, gli fornì volentieri delle informazioni. Il signor Nachtigall era rientrato la mattina alle cinque in compagnia di due signori che si erano resi quasi irriconoscibili, forse intenzionalmente, sollevandosi le sciarpe sul viso. Mentre Nachtigall era salito nella sua stanza, quei signori avevano pagato il suo conto del mese passato; poiché dopo mezz’ora egli non era ancora ricomparso, uno dei signori era andato personalmente a prenderlo, dopo di che erano partiti tutti per la stazione Nord. Nachtigall era apparso molto eccitato, e poi - perché non dire tutta la verità ad un signore che ispirava tanta fiducia? - aveva tentato di dare di nascosto una lettera al portiere, ma i due signori l’avevano subito impedito. Le lettere recapitate in séguito al signor Nachtigall - avevano aggiunto - sarebbero state ritirate da una persona a ciò autorizzata. Fridolin si congedò, nell’uscire fu contento di avere con sé la sua borsa da medico; almeno non l’avrebbero preso per un frequentatore di quell’hôtel, ma per un funzionario. Quanto a Nachtigall, per il momento non c’era dunque nulla da fare. Erano stati molto prudenti e avevano tutte le ragioni per esserlo. Si recò allora al magazzino dei costumi. Venne ad aprire proprio il signor Gibiser. «Le ho riportato il costume», disse Fridolin «e desidero sapere quanto le devo». Gibiser chiese una somma modesta, incassò il danaro, lo registrò in un grosso libro contabile e, ancora seduto dietro la scrivania del suo ufficio, sollevò piuttosto meravigliato lo sguardo verso Fridolin che non accennava ad andarsene. «Sono qui, fra l’altro», disse Fridolin col tono di un giudice istruttore «per scambiare qualche parola con lei in merito a sua figlia». Le pinne del naso di Gibiser si contrassero leggermente; disagio, beffa o stizza? non era facile stabilirlo. «Come dice, signore?» domandò in tono parimenti indefinibile. «Ieri ha detto» continuò Fridolin, una mano appoggiata con le dita aperte sulla scrivania «che sua figlia non era del tutto sana di mente. La situazione in cui l’abbiamo sorpresa lasciava credere che fosse realmente così. Poiché il caso mi ha fatto partecipare, o almeno assistere, a quella scena singolare, le consiglierei di consultare un medico, signor Gibiser». Gibiser, rigirando tra le mani una penna lunga oltre misura, squadrò Fridolin con uno sguardo insolente. «E il signor dottore avrebbe forse anche la bontà di prenderla in cura?». «La prego di non attribuirmi parole che non ho pronunciato» rispose Fridolin con voce tagliente, ma un po’ rauca. In quell’attimo la porta che dava sulle stanze interne si aprì, comparve un giovane col soprabito aperto sul frac. Fridolin capì subito che non poteva essere altri che uno dei giudici della Veme della notte scorsa. Non c’era dubbio, veniva dalla stanza di Pierrette. Sembrò sorpreso nel vedere Fridolin, ma si dominò subito, salutò fuggevolmente Gibiser con un cenno della mano, poi si accese una sigaretta con un accendino che si trovava sulla scrivania, e uscì. «Ah, è così» osservò Fridolin atteggiando le labbra ad una smorfia di disprezzo, mentre sentiva un sapore amaro sulla lingua. «Come dice, signore?» chiese Gibiser con assoluta indifferenza. «Dunque ci ha rinunziato, signor Gibiser», e con aria di superiorità fece scivolare lo sguardo dalla porta d’ingresso a quella da cui era uscito il giudice della Veme «rinunziato, ad avvertire la polizia». «Ci si è messi d’accordo in altro modo, dottore» osservò Gibiser e si alzò, come se fosse terminata un’udienza. Fridolin si apprestò ad uscire, Gibiser aprì premurosamente la porta e disse senza scomporsi: «Se il dottore dovesse avere ancora bisogno... Non è necessario che si tratti proprio di un abito fratesco». Fridolin uscì sbattendo la porta. La faccenda è conclusa, pensò con un senso di rabbia che gli sembrò anche eccessivo. Scese velocemente le scale, andò senza particolare fretta al Policlinico e telefonò anzitutto a casa per sapere se era stato chiamato da qualche paziente, se fosse giunta posta, se ci fossero comunque novità. La cameriera aveva appena risposto a quelle domande che la stessa Albertine andò al telefono e lo salutò. Ripetè tutto ciò che la cameriera aveva già detto, poi raccontò disinvolta di essersi alzata solo in quel momento e di voler far colazione insieme con la bambina. «Dàlle un bacio da parte mia», disse Fridolin «e buon appetito». Gli aveva fatto piacere sentire la sua voce, e proprio perciò aveva subito interrotto la conversazione. In realtà voleva ancora chiedere ad Albertine cosa avesse intenzione di fare nella mattinata, ma che gliene importava? Nel profondo dell’animo aveva chiuso con lei, qualunque piega avesse preso la loro vita. La bionda infermiera lo aiutò a togliersi la giacca, gli diede il camice bianco e gli sorrise un poco, come soleva fare con tutti, ci si occupasse o meno di lei. Pochi minuti dopo era in corsia. Il primario aveva fatto sapere che era dovuto partire improvvisamente a causa di un consulto, gli assistenti potevano quindi procedere alle visite senza di lui. Fridolin si sentì quasi felice quando, seguito dagli studenti, passò di letto in letto, visitò, scrisse ricette, discusse problemi specialistici con medici ausiliari e infermiere. C’erano novità d’ogni specie. Il garzone di fabbro Karl Rödel era morto durante la notte. Autopsia: pomeriggio, alle quattro e mezzo. Nella corsia delle donne si era liberato un letto, ora di nuovo occupato. La donna del letto diciassette avevano dovuto trasferirla al reparto chirurgico. Ogni tanto parlavano anche di problemi del personale. La nuova nomina del direttore del reparto oculistico si sarebbe dovuta decidere dopodomani; Hügelmann, allora professore a Marburg, quattro anni prima ancora secondo assistente di Stellwag, aveva le migliori possibilità di successo. Carriera rapida, pensò Fridolin. Non mi prenderanno mai in considerazione per la direzione di un reparto, anche perché non ho la libera docenza. Troppo tardi. Perché poi? Si trattava solo di ricominciare il lavoro scientifico, o riprendere con maggiore serietà alcune ricerche già iniziate. L’esercizio della professione privata gli lasciava comunque sempre abbastanza tempo. Pregò il dottor Fuchstaler di occuparsi dell’ambulatorio e dovette confessarsi che avrebbe preferito restare là anziché andare sul Galitzinberg. Tuttavia, era necessario farlo. Non si sentiva solo obbligato di fronte a se stesso a indagare ulteriormente sulla faccenda; c’erano ancora da sbrigare molte altre cose, oggi. E così decise, per ogni evenienza, di affidare al dottor Fuchstaler anche le visite serali. La giovane dell’ultimo letto col sospetto catarro apicale gli sorrise. Era la stessa che recentemente durante una visita aveva premuto così confidenzialmente il seno contro la sua guancia. Fridolin ricambiò di malumore il suo sguardo e si allontanò corrugando la fronte. Una vale l’altra, pensò con amarezza, e Albertine è come loro tutte - è la peggiore di tutte. Mi dividerò da lei. Non potrà mai più essere come una volta. Per le scale scambiò ancora qualche parola con un collega del reparto chirurgico. Allora, che aveva in realtà la donna che era stata trasferita da loro durante la notte? Per conto suo non era molto convinto della necessità di un’operazione. Comunque, gli avrebbero fatto avere il risultato dell’esame istologico? «Naturalmente, collega». All’angolo prese una carrozza. Consultò il suo taccuino, ridicola commedia davanti al cocchiere, come se dovesse decidersi solo allora. «Andiamo a Ottakring», disse poi «la strada del Galitzinberg. Le dirò io dove deve fermare». In carrozza fu di nuovo preso da una eccitazione tra dolorosa e nostalgica, si sentiva quasi colpevole di non aver più pensato alla sua bella soccorritrice nelle ultime ore. Sarebbe riuscito a trovare la casa? Mah, non poteva essere così difficile. Il problema era solo: che fare poi? denuncia alla polizia? Una simile decisione poteva avere spiacevoli conseguenze proprio per la donna che s’era sacrificata per lui, o almeno si era dichiarata pronta a farlo. O doveva rivolgersi a un detective privato? Questa soluzione gli sembrò abbastanza di cattivo gusto e non del tutto degna di lui. Ma che altro gli restava da fare? Non aveva né il tempo né forse il talento per condurre bene le indagini. Una società segreta? Ebbene sì, ad ogni modo qualcosa di segreto. Ma si conoscevano tra di loro? Aristocratici, o forse addirittura membri della corte? Pensò a certi arciduchi dai quali c’era ben da aspettarsi scherzi del genere. E le donne? Probabilmente... raccolte nelle case di piacere. Tuttavia la cosa non era affatto sicura. Comunque, merce scelta. Ma la donna che si era sacrificata per lui? Perché poi voleva continuare a credere che si era trattato veramente di un sacrificio! Una commedia. Si capisce, era stata tutta una commedia. In fondo doveva essere contento di essersela cavata così a buon mercato. Ma aveva conservato il controllo di sé. I cavalieri avevano certo notato che non era uno qualunque. E anche lei se n’era comunque accorta. Forse preferiva lui a tutti quegli arciduchi o gente simile. Alla fine del Liebhartstal, dove la strada cominciava decisamente a salire, smontò e per prudenza rimandò indietro la carrozza. Il cielo era azzurro pallido e percorso da nuvolette bianche, il sole caldo come in primavera. Guardò indietro non si vedeva nulla di sospetto. Nessuna carrozza, nessuno in giro. Prese a salire lentamente. Il cappotto gli cominciava a pesare; se lo tolse e se lo gettò sulle spalle. Giunse al posto dove a destra doveva staccarsi la via laterale in cui si trovava la casa misteriosa; non poteva sbagliare; era in discesa, ma non certo così ripida come gli era sembrata di notte percorrendola in carrozza. Una via tranquilla. In un giardinetto davanti a una casa c’erano dei rosai avvolti accuratamente in protezioni di paglia, in quello successivo c’era una carrozzina, un bambino tutto vestito di lana azzurra correva su e giù; dalla finestra del pianterreno una giovane donna guardava sorridendo. Seguiva poi un terreno su cui non si era costruito, un giardino recintato e incolto, una piccola villa, un prato, e infine, non c’era dubbio, quella lì era la casa che cercava. Non sembrava affatto grande o sfarzosa, era una villa ad un piano in modesto stile impero e si vedeva ch’era stata rinnovata da non molto tempo. Le persiane verdi erano tutte chiuse, niente faceva pensare che la villa potesse essere abitata. Fridolin si guardò intorno. Nella strada non si vedeva nessuno; solo più giù camminavano allontanandosi due ragazzi coi libri sotto il braccio. Si trovava davanti alla porta del giardino. Che fare dunque? Ritornare semplicemente indietro? L’idea gli sembrò addirittura ridicola. Cercò il campanello elettrico. E se gli aprivano, cosa doveva dire? Mah, molto semplice... se era possibile prendere in affitto per l’estate quella graziosa villa! Intanto la porta di casa si era già aperta e ne era uscito un vecchio servitore in semplice livrea da mattina che percorse lentamente lo stretto viottolo fino al cancello del giardino. Aveva in mano una lettera e la porse senza parlare attraverso le sbarre a Fridolin, che sentiva il cuore battergli con violenza. «È per me?» chiese esitante. Il servitore annuì, si voltò, si allontanò e la porta della villa si richiuse alle sue spalle. Che significa questo? si domandò Fridolin. Una lettera della donna? O forse è proprio lei la proprietaria della casa... Ritornò indietro in fretta, solo allora si accorse che sulla busta c’era scritto a caratteri diritti e maestosi il suo nome. Giunto all’angolo aprì la lettera; spiegò il foglio e lesse: «Abbandoni le sue indagini che sono del tutto inutili e consideri queste parole come un secondo avvertimento. Speriamo nel suo interesse che non ne siano necessari altri». Abbassò il foglio. Il messaggio lo deludeva sotto ogni riguardo; in ogni caso era diverso da quello che stoltamente si era aspettato. Comunque, il tono era stranamente riservato, per nulla mordace. Lasciava capire che le persone che avevano inviato quel messaggio non si sentivano affatto sicure. Secondo avvertimento...? Come mai? Ah, sì, la notte scorsa aveva ricevuto il primo. Ma perché secondo - e non ultimo? Volevano di nuovo mettere alla prova il suo coraggio? Doveva superare un esame? E dove avevano appreso il suo nome? Mah, proprio di questo non c’era da meravigliarsi, probabilmente avevano indotto Nachtigall a rivelarlo. E inoltre - sorrise involontariamente della sua distrazione - nella fodera della pelliccia era cucito il suo monogramma e l’indirizzo esatto. Ma, anche se le indagini restavano al punto di prima, quella lettera lo aveva in complesso calmato, senza che potesse dirne la ragione. In particolare era convinto che la donna per la cui sorte aveva trepidato era ancora viva e che dipendeva solo da lui il ritrovarla, se avesse agito con prudenza e astuzia. Quando giunse a casa, abbastanza stanco ma con l’animo stranamente sollevato, il che gli sembrò per altro illusorio, Albertine e la bambina avevano già pranzato, ma gli fecero compagnia mentre mangiava. Colei che la notte l’aveva fatto tranquillamente crocifiggere gli sedeva di fronte, lo sguardo angelico, l’aspetto materno e da donna di casa; ma Fridolin, con sua stessa meraviglia, non la odiava affatto. Mangiò con appetito; si sentiva un po’ eccitato, ma in realtà era di buon umore e, come era solito fare, parlò molto animatamente delle piccole vicende professionali di quel giorno, in particolare dei problemi del personale medico di cui soleva sempre informare dettagliatamente Albertine. Riferì che la nomina di Hügelmann era quasi sicura e parlò del suo proposito di riprendere con maggior lena il lavoro scientifico. Albertine conosceva bene quegli stati d’animo, sapeva che non solevano durare troppo a lungo, e un lieve sorriso tradì i suoi dubbi. Fridolin s’infervorava e Albertine gli passò delicatamente la mano sui capelli come per calmarlo. Ora egli trasalì leggermente e si rivolse alla bambina, sottraendo così la fronte ad altre sgradevoli carezze. Prese in braccio la piccola e voleva farla dondolare sulle ginocchia, quando la domestica annunciò che c’erano già alcuni pazienti che attendevano. Fridolin si alzò con un senso di liberazione, disse ancora di sfuggita che Albertine e la bambina potevano utilizzare quel bel pomeriggio di sole per andare a passeggio, ed entrò nello studio. Nelle due ore che seguirono Fridolin si trovò di fronte sei vecchi pazienti e due nuovi. Si mostrò molto interessato ai singoli casi, visitò, prese appunti, prescrisse medicine - e fu contento di sentirsi così meravigliosamente fresco e sveglio dopo le due ultime notti quasi insonni. Al termine passò, com’era sua abitudine, a vedere ancora una volta la moglie e la bambina e notò, non senza soddisfazione, che Albertine aveva appena ricevuto la visita della madre e la piccola imparava il francese con la governante. Soltanto per le scale si rese conto di nuovo che tutto quell’ordine, quell’armonia, quella sicurezza della sua esistenza non erano che apparenza e menzogna. Sebbene avesse disdetto le visite pomeridiane sentì una irresistibile attrazione a tornare in ospedale. C’erano due casi particolarmente interessanti per un lavoro scientifico cui progettava di dedicarsi, e per un certo tempo se ne occupò più minuziosamente di quanto avesse fatto finora. Poi visitò ancora un paziente in centro, e così si erano fatte le sette di sera quando si trovò davanti alla vecchia casa nella Schreyvogelgasse. Solo quando sollevò lo sguardo verso la finestra di Marianne la sua immagine, che nel frattempo si era completamente sbiadita, si ridestò con maggiore chiarezza di ogni altra. Ecco ora non poteva fallire. Qui poteva iniziare la sua vendetta senza eccessivo sforzo, qui non c’erano difficoltà, né pericoli; e l’idea, che forse avrebbe fatto indietreggiare altri, che lei tradisse il fidanzato, per lui era quasi uno stimolo in più. Sì, tradire, ingannare, mentire, far la commedia, dovunque, davanti a Marianne, davanti ad Albertine, davanti al buon dottor Roediger, davanti al mondo intero; condurre una specie di doppia vita, essere il medico valente e fidato dal promettente avvenire, il buon marito e padre di famiglia e allo stesso tempo un libertino, un seduttore, un cinico che giocava con la gente, con uomini e donne a seconda dell’estro - tutto ciò gli sembrò in quel momento molto attraente; ma la cosa più attraente era il pensiero che un bel giorno, quando Albertine si sarebbe creduta ormai protetta dalla sicurezza di una vita domestica e coniugale senza scosse, le avrebbe rivelato con un freddo sorriso tutte le sue colpe, ripagandola così dell’amarezza e del disonore che gli aveva cagionato col suo sogno. Nell’ingresso si trovò di fronte il dottor Roediger che gli diede la mano con ingenua cordialità. «Come sta la signorina Marianne?» chiese Fridolin. «Si è calmata un po’?». Il dottor Roediger si strinse nelle spalle. «Era già da tempo preparata alla fine, dottore. Solo quando oggi verso mezzogiorno hanno portato via la salma...». «Ah, è già avvenuto?». Il dottor Roediger annuì. «Domani pomeriggio alle tre avranno luogo i funerali...». Fridolin guardava dinanzi a sé. «Ci saranno, naturalmente, i parenti con la signorina Marianne?». «Non più», rispose il dottor Roediger «ora è sola. Marianne sarà certo contenta di rivederla, dottore. Domani mia madre ed io l’accompagneremo a Mödling» e a uno sguardo cortesemente interrogativo di Fridolin: «I miei genitori possiedono lì una casetta. Arrivederci, dottore. Ho ancora diverse cose da sbrigare. Che cosa non c’è da fare in un... caso simile! Spero d’incontrarla ancora qui al mio ritorno». E così dicendo uscì dal portone sulla strada. Fridolin esitò un attimo, poi salì lentamente le scale. Suonò il campanello; venne ad aprirgli proprio Marianne. Era vestita di nero, aveva al collo una collana di giaietto nera che non le aveva mai visto. Arrossì leggermente. «Mi fa attendere a lungo» ella disse con un debole sorriso. «Mi scusi, signorina Marianne, oggi ho avuto una giornata particolarmente faticosa». La seguì, passando attraverso la stanza del defunto il cui letto era ormai vuoto, nella camera accanto dove il giorno prima aveva scritto il certificato di morte del consigliere sotto il quadro dell’ufficiale in uniforme bianca. Sulla scrivania ardeva già un piccolo lume, sicché la stanza era in penombra. Marianne lo fece accomodare sul divano di cuoio nero, mentre lei gli si sedette di fronte, dietro la scrivania. «Poco fa, entrando, ho incontrato il dottor Roediger. Dunque già da domani andrà in campagna?». Marianne lo guardava come meravigliandosi del tono freddo delle sue domande, e chinò la testa quando egli con voce quasi dura continuò: «Trovo la decisione molto assennata». E illustrò freddamente i vantaggi che le avrebbero procurato l’aria buona e il nuovo ambiente. Lei era seduta immobile, le guance rigate di lacrime. Fridolin la guardava senza compassione, piuttosto con impazienza; e il pensiero che forse un attimo dopo potesse stare di nuovo ai suoi piedi e ripetergli la confessione di ieri lo riempiva di paura. E poiché ella taceva, si alzò bruscamente. «Mi dispiace molto, signorina Marianne, ma...». Tirò fuori l’orologio. Marianne sollevò la testa, guardò Fridolin mentre le lacrime continuavano a scorrere. Lui le avrebbe volentieri detto una parola d’incoraggiamento, ma non trovò la forza di farlo. «Rimarrà alcuni giorni in campagna» cominciò forzatamente. «Spero che mi farà avere sue notizie... del resto il dottor Roediger mi ha detto che presto avranno luogo le nozze. Mi permetta di farle fin da ora gli auguri». Marianne non si mosse, come se non si fosse affatto accorta dei suoi auguri, del suo commiato. Fridolin le diede la mano, che lei non strinse, e, quasi in tono di rimprovero, ripetè: «Dunque, spero tanto che mi darà notizie della sua salute. Arrivederci, signorina Marianne». Lei stava là come impietrita. Fridolin uscì, si fermò un secondo sulla porta, quasi a concederle un’ultima possibilità di richiamarlo, ma lei sembrò piuttosto volgere il capo dall’altra parte, allora chiuse la porta dietro di sé. Una volta sul pianerottolo sentì qualcosa come un rimorso. Per un attimo pensò di ritornare indietro, ma si rese conto che una decisione simile sarebbe stata oltre tutto molto ridicola. Ma che fare ora? Andare a casa? E dove se no! Oggi non poteva ormai fare più nulla. E domani? Cosa? E come? Si sentiva impacciato, incerto, ogni cosa gli si vanificava tra le mani; tutto diventava irreale, persino la casa, sua moglie, la sua bambina, la sua professione, sì, persino lui stesso, mentre continuava a camminare meccanicamente nella sera coi suoi pensieri senza meta. L’orologio della torre del municipio scoccò le sette e mezzo. D’altronde non importava che ora fosse; il tempo gli era completamente indifferente. Non provava interesse per nulla e per nessuno. Sentì una leggera compassione per se stesso. Molto fuggevolmente, non proprio come un proposito, gli venne l’idea di recarsi a una qualsiasi stazione, partire, non importava per dove, sparire per tutti coloro che lo avevano conosciuto, ricomparire in qualche luogo all’estero e incominciare una nuova vita, sotto spoglie diverse. Si ricordò di certi strani casi clinici che conosceva dai libri di psichiatria, delle cosiddette doppie esistenze: un uomo spariva improvvisamente dalla vita normale, veniva dato per disperso, ritornava dopo mesi o dopo anni, senza ricordare dove era stato tutto quel tempo, finché in séguito qualcuno con cui s’era incontrato da qualche parte in un paese lontano lo riconosceva, ma lui non aveva più memoria di nulla. Casi simili si verificavano certo raramente, ma erano comunque provati. E in forma più lieve a più d’uno doveva capitare la stessa cosa. Per esempio dopo aver fatto un sogno? Certo, ci si ricordava... Ma sicuramente c’erano anche dei sogni che si dimenticavano del tutto, dei quali non restava più traccia, tranne un certo strano stato d’animo, uno stordimento misterioso. Oppure si ricordavano solo più tardi, molto più tardi, e non si sapeva più se si era fatta un’esperienza reale o soltanto sognato. Soltanto... soltanto...! E mentre continuava a camminare, prendendo involontariamente la via di casa, capitò nelle vicinanze di quella strada buia e alquanto malfamata in cui poco meno di ventiquattr’ore prima aveva seguito una donna perduta nella sua abitazione misera ma accogliente. Perduta, la donna? Malfamata, la strada? Com’è vero che si cede sempre alla seduzione delle parole e si giudicano e si denominano strade, destini, uomini per pura forza d’abitudine. Quella ragazza non era in fondo la più graziosa, addirittura la più pura fra tutte le altre che le strane combinazioni della notte scorsa gli avevano fatto incontrare? Provò una certa commozione pensando a lei. E in quel momento si ricordò anche del proposito di ieri; con decisione entrò nel primo negozio e comprò ogni specie di leccornie; e mentre camminava col pacchetto in mano lungo i muri delle case, si sentiva addirittura felice, convinto di accingersi a compiere un’azione per lo meno ragionevole, forse persino degna di lode. Comunque si alzò il bavero quando entrò nel portone, salì in fretta le scale, il campanello dell’appartamento mandò un suono stridulo e spiacevole; e quando apprese da una donna dall’aspetto equivoco che la signorina Mizzi non era in casa, tirò un sospiro di sollievo. Ma prima ancora che ella potesse prendere in consegna il pacchetto per l’assente, entrò nell’anticamera un’altra donna, ancora giovane e non brutta, avvolta in una specie di accappatoio da bagno e disse: «Chi cerca il signore? La signorina Mizzi? Quella non tornerà tanto presto a casa». La vecchia le fece cenno di tacere; ma Fridolin, quasi desiderasse urgentemente una conferma a quanto aveva già in certo modo intuito, osservò semplicemente: «È all’ospedale, vero?». «Beh, se il signore lo sa già... Ma noi siamo sane, grazie a Dio» esclamò allegramente e si accostò a Fridolin con le labbra semiaperte, piegando sfacciatamente indietro il suo corpo procace, sicché l’accappatoio si aprì. Fridolin disse con distacco: «Passavo di qui e son salito per portare qualcosa a Mizzi» e a un tratto gli sembrò di essere uno studente liceale. Poi chiese con tono diverso, concretamente: «In quale reparto si trova?». La ragazza fece il nome di un professore nella cui clinica Fridolin era stato assistente alcuni anni prima. E poi aggiunse bonariamente: «Dia pure a me il pacchetto, glielo porterò domani. Si fidi di me, non toccherò nulla. Le darò anche i suoi saluti e le riferirò che lei non l’ha tradita». Nello stesso tempo però gli si fece più vicino e lo guardò ridendo. Ma poiché egli si tirò leggermente indietro, desistette subito e aggiunse in tono consolante: «Il dottore ha detto che fra sei, al più tardi otto settimane sarà di nuovo a casa». Quando Fridolin uscì in strada, sentì un nodo alla gola; ma sapeva che non si trattava tanto di commozione quanto di un graduale venir meno dei suoi nervi. Prese intenzionalmente un’andatura più veloce ed animata di quanto si confacesse al suo stato d’animo. Doveva forse considerare quell’avventura un ulteriore, un ultimo segno che tutto sarebbe fallito? Perché? L’essere sfuggito a un così grave pericolo poteva comunque anche ritenersi un buon segno. Ma era proprio quella la cosa più importante: evitare dei pericoli? Chissà quanti altri pericoli lo aspettavano ancora. Non pensava affatto di abbandonare le ricerche della meravigliosa donna della notte scorsa. Certo adesso non c’era più tempo. E poi bisognava riflettere bene sul modo di proseguire le indagini. Sì, se avesse avuto qualcuno con cui consigliarsi! Ma non conosceva nessuno che avrebbe messo volentieri a parte delle avventure della notte passata. Da anni non era più veramente in confidenza con nessuno, tranne che con sua moglie, e con lei poteva difficilmente consigliarsi in quel caso, in quello come in qualunque altro. Che, la si mettesse come si voleva: la notte scorsa essa l’aveva fatto crocifiggere. Adesso capì perché i suoi passi, invece che in direzione di casa, lo conducevano istintivamente sempre più lontano, dalla parte opposta. In quel momento non voleva, non poteva andare da Albertine. La cosa più logica era cenare fuori da qualche parte, poi tornare in ospedale a riguardarsi i suoi due casi ed evitare ad ogni costo di essere a casa - «a casa!» - prima di poter essere sicuro di trovare Albertine già addormentata. Entrò in un caffè, uno di quelli distinti e tranquilli nei pressi del municipio, telefonò a casa che non lo aspettassero per la cena e riattaccò subito per evitare che anche Albertine potesse andare al telefono, poi si sedette vicino a una finestra e chiuse la tendina. In un angolo distante prendeva posto in quel momento un signore in soprabito scuro, anche per il resto vestito in modo molto discreto. Fridolin si ricordò di aver già visto in qualche posto, nel corso della giornata, quella fisionomia. Naturalmente poteva anche essere una semplice coincidenza. Prese un giornale della sera e lesse qua e là qualche rigo, così come aveva fatto ieri notte in un altro caffè: notizie su avvenimenti politici, teatro, arte, letteratura, su incidenti piccoli e grandi di ogni genere. In una città dell’America, il cui nome non aveva mai sentito, si era incendiato un teatro. Lo spazzacamino Peter Korand s’era gettato dalla finestra. A Fridolin sembrò in qualche modo strano che anche gli spazzacamini talvolta si suicidassero, e si domandò involontariamente se si fosse prima lavato per bene o si fosse precipitato nel vuoto così com’era, tutto nero. In un signorile albergo del centro la mattina presto si era avvelenata una donna, una signora che alcuni giorni prima aveva preso alloggio sotto il nome di baronessa D., una signora di straordinaria bellezza. Fridolin si sentì subito coinvolto e pieno di presentimenti. La signora era rientrata alle quattro del mattino in compagnia di due uomini che si erano congedati da lei sul portone. Le quattro. Proprio l’ora in cui anch’egli era tornato a casa. E verso mezzogiorno era stata trovata a letto priva di sensi - così continuava il giornale - con i sintomi di un grave avvelenamento... Una giovane signora di straordinaria bellezza... In fondo c’erano molte giovani signore di eccezionale bellezza... Non c’era nessun motivo di ritenere che la baronessa D., o meglio la signora che aveva preso alloggio nell’hôtel col nome di baronessa D., e una certa altra fossero la stessa persona. Eppure... gli batteva il cuore ed il foglio gli tremava tra le mani. In un signorile albergo cittadino... in quale? Perché era tutto così misterioso? Così riservato?... Abbassò il giornale e vide che contemporaneamente il signore nel lontano angolo di fronte sollevava a sua volta davanti al viso un giornale, un grande giornale illustrato, come una tenda. Anche Fridolin riprese subito in mano il suo, e in quel momento si rese conto che era impossibile che la baronessa D. potesse essere un’altra persona, diversa dalla donna della notte scorsa... In un albergo signorile del centro... Non ce n’erano poi tanti che potevano essere presi in considerazione... per una baronessa D.... E ora qualunque cosa potesse succedere... bisognava seguire quella traccia. Chiamò il cameriere, pagò e uscì. Sulla porta si voltò di nuovo a guardare quel signore sospetto. Ma l’altro era stranamente già scomparso. Grave avvelenamento... Ma viveva... Nel momento in cui l’avevano trovata viveva ancora. E infine non vi era alcun motivo di ritenere che non fosse salva. Comunque, che vivesse o fosse già morta, l’avrebbe ritrovata. E l’avrebbe vista... in ogni caso... morta o viva. L’avrebbe vista; nessuno al mondo poteva impedirgli di vedere la donna che per causa sua, sì, per lui aveva affrontato la morte. Lui era colpevole della sua morte... lui solo... se era lei. Sì, era lei. Tornata a casa il mattino alle quattro in compagnia di due signori! Probabilmente gli stessi che qualche ora dopo avevano accompagnato Nachtigall alla stazione. Non avevano una coscienza troppo pulita, quei signori. Si trovava nella grande, ampia piazza di fronte al municipio e volgeva lo sguardo da tutte le parti. Non scorse che poche persone, il signore sospetto del caffè non era fra loro. E anche se così fosse... quei signori avevano paura, lui era in una posizione di forza. Fridolin riprese il suo passo veloce, al Ring noleggiò una carrozza, si fece prima condurre all’hôtel Bristol e s’informò dal portiere, come se fosse autorizzato od a ciò delegato, se la baronessa D., che com’era noto si era avvelenata la mattina, aveva abitato in quell’hôtel. Il portiere non sembrò meravigliarsi affatto, pensò che Fridolin fosse un funzionario di polizia o un altro pubblico ufficiale, comunque rispose cortesemente che la triste vicenda non si era verificata lì, ma nell’hôtel Erzherzog Karl... Fridolin si recò subito all’hôtel indicato e apprese che la baronessa D. era stata trasportata al Policlinico immediatamente dopo il suo ritrovamento; Fridolin s’informò su come avevano scoperto il tentativo di suicidio. Cosa li aveva spinti a darsi pensiero, già verso mezzogiorno, di una signora che era rientrata solo alle quattro del mattino? Mah, molto semplice: due signori (dunque ancora quei due signori!) avevano chiesto di lei alle undici. Poiché la signora non aveva risposto a ripetute chiamate telefoniche, la cameriera aveva bussato alla porta; poiché anche quel tentativo era risultato vano e la porta era chiusa dall’interno, si erano visti costretti ad abbatterla, e così avevano trovato la baronessa sul letto priva di sensi. Avevano subito avvertito il pronto soccorso e la polizia. «E i due signori?» chiese Fridolin tagliente, e gli sembrò di essere un agente in borghese. Sì, i due signori erano nel frattempo spariti senza lasciar traccia, il che dava naturalmente da pensare. Del resto, non poteva assolutamente essersi trattato di una baronessa Dubieski, nome con cui la signora era stata registrata nell’hôtel. Era la prima volta che scendeva in quell’albergo e non esisteva affatto una famiglia di quel nome, in ogni caso quello non era il nome di una famiglia nobile. Fridolin ringraziò per le informazioni e si allontanò piuttosto in fretta, poiché uno dei direttori dell’hôtel, avvicinatosi in quel momento, cominciava a squadrarlo con importuna curiosità; salì di nuovo in carrozza e si fece condurre all’ospedale. Pochi minuti dopo, all’ufficio accettazione, apprese non solo che la presunta baronessa Dubieski era stata ricoverata nella seconda clinica interna, ma anche che, nonostante tutte le cure dei medici, era morta - senza aver ripreso conoscenza - alle cinque del pomeriggio. Fridolin prese fiato, ma fu solo una sua impressione, poiché in realtà gli era sfuggito un profondo sospiro. L’impiegato di servizio lo guardò con un certo stupore. Fridolin si riprese subito, si congedò cortesemente ed un minuto dopo era già all’aperto. Il giardino dell’ospedale era quasi deserto. In un viale vicino un’infermiera in camice a strisce bianche ed azzurre e cuffia bianca passava in quel momento sotto un lampione. «Morta» disse Fridolin fra sé. Se è lei. E se non è lei? Se vive ancora, come potrò trovarla? Dove fosse in quel momento il cadavere della sconosciuta era facile indovinarlo. Poiché era morta solo poche ore prima, giaceva in ogni caso nella camera mortuaria, a soli pochi passi da lì. Come medico non avrebbe naturalmente incontrato difficoltà per entrare anche a quell’ora. Tuttavia... che cercava lì dentro? Conosceva solo il suo corpo, il viso non l’aveva mai visto, ne aveva solo avuto un’immagine fugace la notte scorsa nell’attimo in cui aveva lasciato la sala da ballo o, per meglio dire, quando ne era stato cacciato. Eppure il non aver fino allora considerato quella circostanza derivava dal fatto che per tutto il tempo trascorso dal momento in cui aveva letto quella notizia sul giornale si era rappresentata la suicida, il cui volto gli era sconosciuto, con i lineamenti di Albertine e che, come si accorse solo ora rabbrividendo, aveva continuamente avuto davanti agli occhi l’immagine della moglie, identificandola con colei che cercava. E ancora una volta si chiese cosa mai volesse nella camera mortuaria. Sì, se l’avesse ritrovata viva, oggi, domani - o anche a distanza di anni, in qualsiasi luogo e occasione - era convinto che l’avrebbe senza dubbio riconosciuta dall’andatura, dal portamento e, più di tutto, dalla voce. Ora però avrebbe rivisto soltanto il corpo, un corpo morto di donna e un volto di cui non conosceva che gli occhi... occhi ormai spenti. Sì, quegli occhi li conosceva e quei capelli, che nell’ultimo istante prima che lo cacciassero dalla sala si erano improvvisamente sciolti e avevano velato il corpo nudo. Ma sarebbe bastato a dargli la certezza della sua identità? E a passo lento e incerto si diresse verso l’istituto di anatomia patologica attraverso i ben noti cortili. Trovò il portone aperto e non dovette suonare il campanello. Il pavimento di pietra rimandava l’eco dei suoi passi mentre attraversava il corridoio rischiarato debolmente. Un odore familiare, in certo modo domestico, di sostanze chimiche di ogni genere, che copriva le esalazioni proprie di quell’edificio, avvolse Fridolin. Bussò alla porta del gabinetto istologico, dove poteva supporre che si trovasse ancora qualche assistente al lavoro. Dopo un «avanti» un po’ brusco, Fridolin entrò nella stanza dal soffitto alto e illuminato addirittura con sfarzo, al centro della quale, appena sollevato l’occhio dal microscopio, come Fridolin s’era quasi aspettato, si alzò dalla sedia il dottor Adler, suo vecchio compagno di studi e assistente dell’istituto. «Oh, caro collega», lo salutò il dottor Adler sempre un po’ irritato ma al tempo stesso sorpreso «quale onore, a un’ora così insolita?». «Scusa il disturbo» disse Fridolin. «Vedo che sei in pieno lavoro». «Appunto» riprese Adler col tono tagliente che lo distingueva sin da quando era studente, e aggiunse più calmo: «Che altro si potrebbe fare a mezzanotte in queste sacre sale? Ma naturalmente non mi disturbi affatto. In cosa posso esserti utile?». E poiché Fridolin non rispose subito: «Quell’Addison che ci avete consegnato oggi giace ancora lì graziosamente intatto. Autopsia: domattina, otto e trenta». E a un cenno di diniego di Fridolin: «Ah, capisco... il tumore alla pleura! Ebbene... l’esame istologico ha rivelato un irrefutabile sarcoma. Anche per questo non avete dunque bisogno di farvi venire i capelli grigi». Fridolin scosse di nuovo il capo. «Non si tratta di una cosa di lavoro». «Beh, tanto meglio», disse Adler «cominciavo già a credere che fosse stata la cattiva coscienza a portarti fin qui nottetempo». «Si tratta comunque di cattiva coscienza o almeno di coscienza in genere» rispose Fridolin. «Oh!». «In breve», cercò di assumere un tono distaccato e ingenuo «desidererei avere informazioni di una donna morta nel pomeriggio nella seconda clinica in séguito ad avvelenamento da morfina e che ora dovrebbe trovarsi qui, una certa baronessa Dubieski». E continuò più in fretta: «Ho l’impressione che questa presunta baronessa Dubieski sia una donna che ho conosciuto fugacemente anni fa. E mi interesserebbe sapere se la mia supposizione è esatta». «Suicidium?» chiese Adler. Fridolin annuì. «Sì, suicidio» tradusse quasi desiderando restituire alla faccenda il suo carattere privato. Adler puntò scherzosamente l’indice contro Fridolin. «Amore infelice per Vossignoria Illustrissima?». Fridolin negò alquanto seccato: «Il suicidio della baronessa Dubieski non ha nulla a che fare con la mia persona». «Scusa, scusa, non volevo essere indiscreto. Possiamo accertarci subito. Che io sappia, stasera non è giunta alcuna richiesta della medicina legale. Comunque...». Esame necroscopico legale: balenò in mente a Fridolin. Forse poteva ancora essere ordinato. Chissà se il suo suicidio era poi volontario? Si ricordò di nuovo di quei due signori che erano improvvisamente spariti dall’hôtel dopo aver appreso del tentativo di suicidio. La faccenda potrebbe ancora diventare un caso criminale clamoroso. E chissà se lui - Fridolin - non sarebbe addirittura chiamato a testimoniare... già, ma non era poi suo dovere presentarsi spontaneamente alla polizia? Seguì il dottor Adler attraverso il corridoio fino alla porta di fronte, che era semiaperta. La stanza, spoglia e dal soffitto alto, era illuminata debolmente dalle due fiamme un po’ abbassate di un lampadario a gas a due bracci. Dei dodici o quattordici tavoli anatomici solo pochi erano occupati. Alcuni corpi erano nudi, sugli altri erano distesi dei lenzuoli. Fridolin si avvicinò al primo tavolo, proprio accanto alla porta, e sollevò cautamente il lenzuolo dalla testa del cadavere. Un abbagliante raggio di luce si sprigionò improvvisamente dalla lampadina tascabile del dottor Adler. Fridolin vide un volto giallo di uomo dalla barba grigia e lo ricoprì subito col lenzuolo. Sul tavolo accanto giaceva il corpo nudo e magro di un giovinetto. Il dottor Adler disse da un altro tavolo: «Una fra i sessanta e i settanta, neanche questa sarà quella che cerchi». Ma Fridolin, come attratto da una forza improvvisa, andò in fondo alla sala dove riluceva, pallido, un corpo di donna. La testa era piegata da un lato; lunghe ciocche di capelli scuri ricadevano fin quasi a terra. Istintivamente Fridolin allungò la mano per rimettere a posto la testa, poi con una timidezza a lui medico altrimenti estranea, esitò. Intanto si era avvicinato il dottor Adler e accennando ai corpi alle sue spalle osservò: «Nessuno che possa interessarti... allora, è quella?». E illuminò con la lampada tascabile la testa di donna che Fridolin, vincendo la sua timidezza, aveva preso fra le mani e sollevato un po’. Un volto bianco con le palpebre semiaperte lo fissò. La mandibola pendeva floscia, il labbro superiore piccolo e alzato lasciava vedere la gengiva bluastra e una fila di denti bianchi. Era mai stato bello quel volto, o forse lo era ancora il giorno prima? Fridolin non avrebbe potuto dirlo - era un volto completamente insignificante, vuoto, un volto morto. Poteva benissimo appartenere a una diciottenne come a una trentottenne. «È lei?» chiese il dottor Adler. Fridolin istintivamente si avvicinò ancora di più alla morta quasi che, acuendo lo sguardo, potesse strappare una risposta a quei lineamenti irrigiditi. E al tempo stesso capì: anche se quello era davvero il volto di lei e quegli occhi gli stessi che ieri sera si erano fissati così caldi di vita nei suoi, non l’avrebbe mai saputo, non poteva saperlo forse non lo voleva affatto. Ripose dolcemente la testa sul piano del tavolo e fece vagare lo sguardo sul corpo della morta, accompagnato dalla luce mobile della lampadina tascabile. Era proprio il suo corpo?... quel corpo meraviglioso, fiorente, solo ieri così tormentosamente desiderato? Vide un collo giallastro, avvizzito, vide due seni di ragazza piccoli e tuttavia già cascanti fra i quali, come un segno della decomposizione in atto, lo sterno si disegnava con crudele chiarezza sotto la pelle pallida, vide la rotondità bruno opaca del basso ventre, vide come da un’ombra scura, ormai priva di segreto e di senso, si aprivano, insignificanti, le gambe ben formate, vide i ginocchi leggermente divaricati, gli spigoli vivi degli stinchi e i piedi snelli con le dita piegate in dentro. Poi tutto ripiombò rapidamente nel buio perché il cono luminoso della lampadina tascabile tornò indietro di scatto e si fermò oscillando leggermente sul volto pallido. Istintivamente, quasi costretto e guidato da una forza invisibile, Fridolin sfiorò con le mani la fronte, le guance, le spalle, le braccia della morta; poi intrecciò le sue dita in quelle di lei come in un gioco d’amore, e per quanto fossero rigide, gli sembrò che esse cercassero di muoversi e di ricambiare la stretta; ebbe persino l’impressione che sotto le palpebre semichiuse uno sguardo estraneo e spento andasse in cerca del suo; e come attratto magicamente si chinò su di lei. In quell’attimo udì sussurrare dietro di sé: «Ma che fai?». Fridolin si riebbe subito. Sciolse le sue dita da quelle della morta, prese i suoi polsi sottili e ripose accuratamente, quasi con pedanteria, le braccia gelide accanto al busto. E gli sembrò che quella donna fosse morta solo in quel momento. Poi si allontanò, si diresse verso la porta e, attraverso il corridoio che risuonava sotto i suoi passi, rientrò nel gabinetto di istologia dal quale era uscito poco prima. Il dottor Adler lo seguiva in silenzio e richiuse la porta. Fridolin andò al lavabo. «Permetti» disse, e si lavò accuratamente le mani con lisolo e sapone. Frattanto il dottor Adler sembrò voler riprendere subito il lavoro interrotto. Aveva acceso di nuovo la luce adatta, girò la vite micrometrica e guardò nel microscopio. Quando Fridolin si avvicinò per salutarlo il dottor Adler era di nuovo immerso nel suo lavoro. «Vuoi dare un’occhiata al preparato?» chiese. «Perché?» rispose Fridolin assente. «Mah, solo per tranquillizzare la tua coscienza» replicò il dottor Adler, come se in fondo ammettesse che la visita di Fridolin aveva avuto soltanto uno scopo medico-scientifico. «Ti orienti?» chiese, mentre Fridolin guardava al microscopio. «Si tratta di un metodo di colorazione abbastanza nuovo». Fridolin annuì senza allontanare l’occhio dallo strumento. «Addirittura ideale», osservò «un’immagine dai colori sfarzosi, si direbbe». E chiese informazioni su diversi particolari della nuova tecnica. Il dottor Adler gli diede i chiarimenti desiderati e Fridolin fu del parere che quel nuovo metodo gli sarebbe stato probabilmente molto utile per un lavoro che intendeva svolgere nel prossimo futuro. Chiese di poter tornare domani o dopodomani per avere ulteriori spiegazioni. «Sempre a tua disposizione» disse il dottor Adler, accompagnò Fridolin sulle mattonelle di pietra fino al portone che nel frattempo era stato chiuso, e lo aprì con la propria chiave. «Ti trattieni ancora?» chiese Fridolin. «Ma naturalmente», rispose il dottor Adler «queste sono le ore più belle per lavorare - all’incirca da mezzanotte all’alba. Per lo meno si è abbastanza sicuri di non essere disturbati». «Mah» osservò Fridolin, con un lieve sorriso e come consapevole d’essere stato importuno. Il dottor Adler appoggiò la mano sul braccio di Fridolin per assicurarlo che non era così, poi chiese con discrezione: «Dunque... era lei?». Fridolin esitò un attimo, poi annuì in silenzio, quasi senza rendersi conto che quell’affermazione poteva essere una bugia. In realtà di una cosa era certo: anche se la donna che aveva cercato, desiderato e forse amato per un’ora viveva ancora e qualunque fosse stata la sua vita futura, anche se colei che giaceva ora nella camera mortuaria era la stessa che ventiquattr’ore prima aveva stretto, nuda, fra le braccia al suono selvaggio del pianoforte di Nachtigall, o un’altra, una sconosciuta, un’estranea mai incontrata prima il corpo che giaceva alle sue spalle nello stanzone a volta, al lume delle fiammelle a gas oscillanti, ombra fra le ombre e come quelle oscuro e privo di senso e di segreto, non rappresentava per lui, né poteva rappresentare ormai, che il cadavere pallido della notte passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione. SETTIMO. Si affrettò a tornare a casa per le vie buie e spopolate ed alcuni minuti più tardi, dopo essersi spogliato nello studio come ventiquattr’ore prima, entrò nella camera da letto cercando di fare meno rumore possibile. Udì il respiro tranquillo e regolare di Albertine e vide profilarsi sul cuscino morbido i contorni della sua testa. Fu preso da un inaspettato senso di tenerezza, anzi di sicurezza. E si propose di raccontarle presto, forse già domani, la storia della notte passata, facendo però in modo che le esperienze vissute apparissero come un sogno... poi, quando lei si fosse resa conto di tutta la vanità delle sue avventure, le avrebbe confessato che si trattava invece di realtà. Realtà? si chiese... e in quell’attimo scorse sul cuscino accanto ad Albertine, sul suo cuscino, qualcosa di scuro, di delimitato, come le linee in ombra di un volto umano. Ebbe solo un attimo di sbigottimento, poi capì subito di che si trattava, allungò la mano verso il cuscino e prese la mascherina che aveva portato la notte precedente e che doveva essergli caduta inavvertitamente la mattina mentre riponeva il costume. Forse era stata poi trovata dalla cameriera o dalla stessa Albertine. Così non potè neppure dubitare che Albertine dopo quel ritrovamento non nutrisse dei sospetti e immaginasse probabilmente cose più gravi di quanto era realmente accaduto. Tuttavia il modo in cui glielo faceva intendere, l’idea di mettere accanto a sé sul cuscino la mascherina scura, quasi a simboleggiare il volto del marito divenutole enigmatico, quel modo scherzoso e quasi spavaldo con cui sembravano manifestarsi al contempo un lieve ammonimento e l’intenzione di perdonare, fecero sperare fermamente a Fridolin che ella, ricordandosi forse anche del proprio sogno, qualunque cosa potesse essere accaduta, fosse propensa a non prenderla sul serio. Ma Fridolin, improvvisamente allo stremo delle forze, lasciò scivolare a terra la mascherina, scoppiò con sua stessa sorpresa in singhiozzi disperati, cadde poi accanto al letto e pianse sommessamente affondando la testa nei cuscini. Dopo pochi secondi sentì una mano sfiorargli morbidamente i capelli. Sollevò la testa e dal profondo dell’animo proruppe: «Ti racconterò tutto». Albertine fece dapprima un leggero cenno di diniego con la mano, che egli prese e trattenne nelle sue, Fridolin guardò la moglie con un’espressione allo stesso tempo di domanda e preghiera, poi lei annuì ed egli cominciò a raccontare. Quando Fridolin terminò il suo racconto il giorno spuntava grigio attraverso le tendine. Albertine non lo aveva interrotto neppure una volta con una domanda curiosa o impaziente. Sentiva che egli non voleva, né poteva nasconderle nulla. Giaceva tranquilla con le braccia intrecciate dietro la nuca e tacque ancora a lungo, quando Fridolin aveva già finito da un pezzo. Finalmente - era disteso al suo fianco - egli si chinò su di lei e fissando il suo volto immobile dai grandi occhi chiari nei quali adesso sembrava riflettersi il sorgere del giorno, chiese dubbioso e pieno di speranza: «Che dobbiamo fare, Albertine?». Lei sorrise, e dopo una breve esitazione rispose: «Ringraziare il destino, credo, di essere usciti incolumi da tutte le nostre avventure... da quelle vere e da quelle sognate». «Ne sei proprio sicura?» chiese Fridolin. «Tanto sicura da presentire che la realtà di una notte, e anzi neppure quella di un’intera vita umana, non significano, al tempo stesso, anche la loro più profonda verità». «E nessun sogno» disse egli con un leggero sospiro «è interamente sogno». Albertine prese la testa del marito fra le mani e l’attirò affettuosamente a sé. «Ma ora ci siamo svegliati...» disse «per lungo tempo». Per sempre, voleva aggiungere Fridolin, ma prima ancora che pronunciasse quelle parole, lei gli pose un dito sulle labbra e sussurrò come fra sé: «Non si può ipotecare il futuro». Rimasero così in silenzio, sonnecchiando anche, l’una vicino all’altro, senza sognare - finché, come ogni mattina, alle sette bussarono alla porta, e, con gli abituali rumori della strada, con un vittorioso raggio di luce penetrato attraverso lo spiraglio della tenda e un chiaro riso di bambina dalla stanza accanto, cominciò il nuovo giorno. FINE. NOTA SU «DOPPIO SOGNO» DI GIUSEPPE FARESE. Non v’è dubbio che la tematica onirico-reale-surreale di Traumnovelle, scritta da Arthur Schnitzler fra il 1921 e il 1925 ma già abbozzata nel 1907, eserciti una singolare attrazione sul lettore e lo induca, quasi naturalmente, a guardare alla psicoanalisi come al più vicino, ineludibile modello del suggestivo racconto. Ma ipotizzare una benché minima dipendenza di Schnitzler da Freud significherebbe non tanto mistificare la sostanza del rapporto che li apparentò, quanto travisare le reali intenzioni dell’autore di Traumnovelle. Sebbene infatti Schnitzler conoscesse la Traumdeutung e tenesse in gran conto gli scritti di Sigmund Freud, mantenne sempre una notevole distanza critica nei riguardi del suo geniale concittadino e delle teorie psicoanalitiche. Sintomatico è, ad esempio, che sia Freud - anche se solo nel 1922! a uscire allo scoperto, confessando di avere fino allora evitato Schnitzler «per una specie di “timore del sosia”». Sicché di non poco interesse ci sembra quanto il più anziano neuropsicologo viennese afferma nell’ormai citatissima lettera a Schnitzler del 14 maggio 1922: «... sempre, quando mi sono abbandonato alle Sue belle creazioni, ho creduto di trovare dietro la loro parvenza poetica gli stessi presupposti, interessi e risultati che conoscevo come miei propri. Il Suo determinismo come il Suo scetticismo che la gente chiama pessimismo - , la Sua penetrazione nelle verità dell’inconscio, nella natura istintiva dell’uomo, la Sua demolizione delle certezze convenzionali della civiltà, l’adesione dei Suoi pensieri alla polarità di amore e morte, tutto ciò mi ha commosso come qualcosa di incredibilmente familiare. (In una piccola opera del 1920, Al di là del principio del piacere, ho tentato di indicare nell’eros e nell’istinto di morte le forze primigenie il cui antagonismo domina ogni enigma della vita). Così ho avuto l’impressione che Ella sapesse per intuizione ma in verità a causa di una raffinata autopercezione - tutto ciò che io con un lavoro faticoso ho scoperto negli altri uomini. Credo, anzi, che nel fondo del Suo essere Lei sia un ricercatore della psicologia del profondo, così onestamente imparziale e impavido come non ve ne sono stati mai». Freud riconosceva quindi a Schnitzler grandi capacità di indagatore della psiche umana, ma stabiliva al tempo stesso una netta e inequivocabile differenza fra «l’intuizione» o «raffinata autopercezione» dello scrittore ed il «lavoro faticoso» dello scienziato. Ma cosa pensava Schnitzler di Freud e della psicoanalisi? Potrà forse essere illuminante un sia pur fuggevole accenno alle annotazioni in proposito contenute in una serie di fogli riuniti da Schnitzler sotto la parola chiave «Psicoanalisi» e conservati fra le carte postume nella biblioteca dell’Università di Cambridge. «Non è nuova la psicoanalisi, ma Freud. Così come non era nuova l’America, ma Colombo», scriverà Schnitzler nel 1924; e il 9 marzo 1915, nel diario: «Non accordo all’inconscio una eccessiva autorità - gli interpreti, in particolare gli psicoanalisti svoltano troppo sollecitamente in questa strada». Ma altri e ancor più risoluti giudizi si aggiungono e tali da poter incrinare la validità di capisaldi freudiani come il complesso di Edipo, il complesso di castrazione e persino l’interpretazione dei sogni. A questo proposito Schnitzler non solo ritiene «spesso arbitraria» la simbologia onirica, così minuziosamente codificata da Freud, ma sostiene: «Solo quei fenomeni che sono passati nella nostra coscienza sono utilizzati per l’interpretazione dei sogni». Sorprendente è poi l’accentuazione operata da Schnitzler di una zona della sfera psichica secondo lui trascurata dagli psicoanalisti: il medioconscio o semiconscio, come dirà in altra occasione. «{La psicoanalisi} parla di conscio e inconscio, ma tralascia troppo il medioconscio... Il medioconscio... costituisce il campo più vasto della vita psichica e spirituale; da lì gli elementi salgono ininterrottamente verso il conscio o precipitano nell’inconscio... La rimozione avviene molto più spesso in direzione del medioconscio che dell’inconscio». Tanto più chiaro e funzionale alla nostra lettura di Traumnovelle ci apparirà questo concetto, quando si pensi che Schnitzler ne teorizzava l’applicazione pratica in una serie di appunti sulla Letteratura psicologica pubblicati anch’essi postumi: «Si scopre poi - e questa era forse la cosa più importante - una specie di territorio intermedio fluttuante fra conscio e inconscio. La soglia dell’inconscio non è così vicina come si crede, o talvolta si finge per comodità di credere (un errore non sempre evitato dagli psicoanalisti). Tracciare quanto più decisamente è possibile i limiti fra conscio, semiconscio e inconscio, in ciò consisterà soprattutto l’arte del poeta». Freud, dal canto suo, relega nel Post Scriptum di una sua breve lettera del 24 maggio 1926 una osservazione quanto mai concisa e sibillina sulla novella di Schnitzler: «Ho riflettuto alquanto sulla Sua Traumnovelle». Quale significato attribuire alla palese rinuncia di Freud a occuparsi di una novella la cui tematica sembrava, più apertamente delle altre, accostarsi ai parametri psicoanalitici? Ritorno del «timore del sosia»? o convinzione definitiva - dopo la lettura, appunto, di Traumnovelle - dell’effettiva distanza che correva fra la sua psicoanalisi e la capacità di lettura psicologica dello scrittore da lui stesso definito, e a ragione, «ein psychologischer Tiefenforscher»? Ma veniamo alla tematica e alla struttura compositiva della novella, che si articola in sette parti e scandisce le alterne e tormentate fasi della crisi di una coppia, emblematica, come sempre in Schnitzler, della crisi e dello sgomento dell’individuo di fronte alla enigmatica e instabile realtà dell’esistenza. Non è certo la prima volta che l’attenzione dello Schnitzler narratore si concentra sul problema del matrimonio, o meglio sulla situazione di incomunicabilità che, innescata da un qualsiasi motivo occasionale ed imponderabile, viene improvvisamente a turbare l’equilibrio del rapporto uomo-donna. Mentre però, per fare solo qualche esempio, in Die Fräu des Weisen {La moglie del saggio, 1896}, Die Toten schweigen {I morti tacciono, 1897}, Die Fremde {L’estranea, 1902}, Die Hirtenflüte {Il flauto pastorale, 1909}, vera lettera di Freud a Schnitzler; distanziati negli anni seguiranno solo due cartoncini di ringraziamento datati 7.5.1928 e maggio 1931; Schnitzler morirà il 21 ottobre 1931, in séguito a una emorragia cerebrale. Schnitzler tendeva ad evidenziare la conflittualità di uno solo dei due partners, in Traumnovelle la crisi dei protagonisti si struttura secondo un diagramma di turbamenti paralleli, tanto perfetto da giustificare pienamente il titolo di Doppelnovelle {Doppia novella} che, ancora nel 1924, l’autore voleva dare al racconto. La caratteristica immediatezza schnitzleriana nel presentare con pochi tratti essenziali situazioni e personaggi tocca ancora una volta in Traumnovelle il culmine della maestria narrativa. La bambina sorpresa dal sonno mentre legge una fiaba, il tenero sorriso dei genitori, l’ingresso della governante che accompagna a letto la piccola, Fridolin e Albertine, finalmente soli, sotto il caldo chiarore della lampada: una tranquilla famiglia borghese della Vienna di Schnitzler. Ma la facciata inganna, la realtà è un paravento illusorio e nasconde un groviglio di dubbi, di angosce, di aggressività, di desideri repressi che, una volta liberati, coinvolgeranno i personaggi in una ridda di avventure reali, fantastiche e sognate, costringendoli a percorrere le stazioni della loro crisi alla ricerca affannosa di una verità che non esiste se non nel tentativo, precario ma forse il solo valido al momento, della reciproca comprensione. La trama di quella che si potrebbe definire una “commedia dei disinganni e dei desideri insoddisfatti” - nessuna delle avventure erotico-surreali di Fridolin giungerà a compimento, l’orgia di piacere e di libidine incontrollata di Albertine è solo un sogno! - si dipana lungo il filo dell’alienazione, della vicendevole estraniazione dei due personaggi principali. Il simbolo di tale alienazione è la maschera e il mistero che ad essa si accompagna; non a caso la novella si apre col racconto delle vicende del veglione mascherato della sera precedente. Ma anche lo strano intermezzo presso il mascheraio Gibiser, la partecipazione notturna di Fridolin al singolare ballo in maschera nel club segreto e l’assenza, comunque, di volti che contraddistingue l’episodio, concluso con quell’allucinante confronto con il corpo della morta nella sala anatomica, sono il segno della perdita d’identità che connota la crisi dei protagonisti. Traumnovelle è dunque la storia del progressivo allontanarsi affettivo di Fridolin e Albertine e del loro progressivo ricongiungersi; la loro condizione psicologica fa pensare a «quella specie di territorio intermedio fluttuante fra conscio e inconscio», che Schnitzler definiva “Mittelbewusstsein” o “Halbbewusstsein” e che permette di inquadrare in una nuova luce il trauma interiore dei due personaggi, l’angoscioso ondeggiare della loro comprensione-incomprensione. Se è vero infatti che «Il medioconscio costituisce il campo più vasto della vita psichica e spirituale; da lì gli elementi salgono ininterrottamente verso il conscio o precipitano nell’inconscio», allora anche la ritrovata intesa finale di Fridolin e Albertine dopo la turbinosa notte dei desideri inappagati, acquista il valore di una “ascesa al conscio” che, senza fornire certezze, può tuttavia giustificare quel «rischio» di una soluzione positiva già ipotizzata da Rey alcuni anni orsono: «”Che dobbiamo fare, Albertine?”. Lei sorrise, e dopo una breve esitazione rispose: “Ringraziare il destino, credo, di essere usciti incolumi da tutte le nostre avventure... da quelle vere e da quelle sognate”. “Ne sei proprio sicura?” chiese Fridolin. “Tanto sicura da presentire che la realtà di una notte, e anzi neppure quella di un’intera vita umana, non significano, al tempo stesso, anche la loro più profonda verità”. “E nessun sogno” disse egli con un leggero sospiro “è interamente sogno”. Albertine prese la testa del marito fra le mani e l’attirò affettuosamente a sé. “Ma ora ci siamo svegliati...” disse “per lungo tempo”. Per sempre, voleva aggiungere Fridolin, ma prima ancora che pronunciasse quelle parole, lei gli pose un dito sulle labbra e sussurrò come fra sé: “Non si può ipotecare il futuro”». L’accenno finale di Albertine al «destino» richiama il colloquio iniziale col marito che è il primo momento di dubbio e di incertezza reciproci e prelude al successivo sbandamento affettivo. Si può dire che in questo primo colloquio fra i due coniugi, ancora protetti dalla sicurezza della ovattata atmosfera familiare, Schnitzler fissi e sintetizzi la tematica della novella e ne preannunci lo sviluppo: «Tuttavia dalla leggera conversazione sulle futili avventure della notte scorsa finirono col passare a un discorso più serio su quei desideri nascosti, appena presentiti, che possono originare torbidi e pericolosi vortici anche nell’anima più limpida e pura, e parlarono di quelle regioni segrete che ora li attraevano appena, ma verso cui avrebbe potuto una volta o l’altra spingerli, anche se solo in sogno, l’inafferrabile vento del destino». Si delinea così subito la possibilità di utilizzare il sogno come “regione” dell’anima in cui è possibile la realizzazione di desideri repressi; e sarà proprio Albertine a intraprendere una specie di viaggio liberatorio negli abissi della coscienza. Ma il suo sogno non ha tanto il carattere di Wunschtraum significativamente per Freud la meno problematica delle categorie di sogni, che egli attribuiva prevalentemente ai bambini - quanto quello di azione onirica speculare rispetto alle fantastiche avventure notturne di Fridolin. Il sogno di Albertine non ha un contenuto latente e non ha bisogno di decodificazione. Il materiale onirico è costituito sì da “resti diurni”, nella fattispecie elementi della conversazione serale ricompaiono gli schiavi mori della fiaba, il giovane danese che aveva ammaliato Albertine durante una vacanza in Danimarca, la stupenda fanciulla che aveva avvinto Fridolin nella stessa occasione -, ma l’azione è assolutamente parallela all’avventura reale del marito, con la sola, sostanziale, differenza del capovolgimento della situazione conclusiva. Mentre Fridolin non riuscirà a possedere la bella sconosciuta del circolo segreto in cui s’era introdotto senza invito e, scoperto, scamperà a una dura punizione e forse alla morte, solo perché la donna si sacrifica per lui, Albertine si concederà invece al giovane danese ed assisterà poi, ridendo, alla crocifissione di Fridolin che accetta il sacrificio pur di restarle fedele. La risata sinistra e isterica al contempo con la quale Albertine esce dal sogno e l’orrore di Fridolin di fronte al volto, a lui estraneo, della moglie che lo fissa terrorizzata, segnano il culmine della loro alienazione. Così come la fine del racconto del sogno da parte di Albertine costituisce, ad onta delle apparenze, il primo momento del loro successivo ricongiungersi: «{Fridolin} si stese vicino ad Albertine che sembrò già essersi assopita. Una spada tra noi, pensò di nuovo. E poi: sdraiati fianco a fianco come nemici mortali. Ma erano solo parole». Il sogno ha assorbito tutti gli impulsi aggressivi di Albertine ed ha avuto anche una funzione doppiamente catartica: soggettivamente, Albertine si è scaricata del suo odio nella misura in cui ha potuto vendicarsi dell’incomprensione del marito; oggettivamente, trovando la forza di raccontare la sua vendetta, ha costretto Fridolin, sgomento per l’infedeltà sognata della moglie e sbigottito per la straordinaria e singolare coincidenza di fantasmi onirici e realtà vissuta, a riflettere - anche se inconsciamente - sulla sua stessa infedeltà, che solo per uno strano e inspiegabile gioco del “destino” non si è mai tradotta in realtà. È da questo momento quindi che Fridolin ricomincerà a rientrare a poco a poco nella normale sfera della sua esistenza, così inconsapevolmente come se n’era allontanato. Se infatti l’esperienza onirica catalizza, per così dire, la crisi di Albertine avviandola ad una prevedibile soluzione, più lungo, complesso e travagliato è l’itinerario dello smarrimento esistenziale di Fridolin. La debolezza che è alla base del suo carattere lo espone più facilmente della moglie agli allettamenti e alle lusinghe della realtà circostante e ne renderà più sofferto il ravvedimento. L’attenzione con cui Schnitzler svolge la vicenda interiore di questo personaggio “senza qualità” e ne intuisce e registra le trasformazioni psicologiche è ancora una volta esemplare della straordinaria capacità narrativa dello scrittore austriaco. La dicotomia fedeltà-tradimento che costituisce, come s’è visto, l’asse portante della novella si esplicita più emblematicamente nell’analisi della contraddittorietà del personaggio maschile. La problematicità di Fridolin è già tutta nella risposta che dà alla moglie dopo la reciproca confessione dei “pericoli” cui sono sfuggiti durante la vacanza estiva in Danimarca: «in ogni donna che credevo di amare ho sempre cercato te», e soprattutto, nella sua reazione alla replica di Albertine: «E se anch’io avessi avuto voglia di cercarti prima in altri uomini?»... «Fridolin abbandonò le sue mani quasi l’avesse sorpresa mentre diceva una menzogna o lo tradiva». Al fondo della debolezza e dell’indecisione di Fridolin c’è dunque l’assurdo pregiudizio borghese che concede agli uomini il diritto a una morale e relega la donna in una degradante posizione subalterna. Diviso fra l’accettazione della morale convenzionale e l’amore per Albertine, incapace di risolvere razionalmente la contraddizione, Fridolin s’abbandona all’evasione, che si rivela però tanto più inutile e logorante, quanto più il desiderio di vendicarsi della moglie si scontra con l’incapacità di liberarsi della sua “presenza”. La freddezza e la sicurezza del medico, che dimentica come d’incanto il tormentato colloquio con la moglie ed esce a sera tarda per visitare un ammalato grave, è apparente, così come ingannevole ed artificiosa è la vicinanza della primavera che viene ad un tratto a interrompere il freddo della bianca notte invernale: «In strada dovette aprire la pelliccia. Era cominciato improvvisamente il disgelo, la neve sul marciapiede si era quasi sciolta e spirava un venticello che annunziava la primavera». Lontano da Albertine, Fridolin è dunque completamente solo e indifeso e presto sarà in balìa dei fantasmi e delle suggestioni della seducente notte viennese. Il progressivo distaccarsi dalla quotidianità del suo viver borghese e la proiezione, inconscia, del proprio stato d’animo sul mondo esterno mentre gli fa apparire ogni cosa avvolta in un’atmosfera spettrale, sembra tuttavia liberarlo da qualsiasi responsabilità: «A un tratto, superata ormai la sua meta, si trovò in una stradina in cui si aggiravano solo alcune squallide prostitute a caccia notturna di uomini. Che atmosfera spettrale, pensò. Anche gli studenti dai berretti blu divennero improvvisamente spettrali nel ricordo, così pure Marianne, il fidanzato, lo zio e la zia, che ora immaginò tenersi per mano attorno al letto di morte del vecchio consigliere; anche Albertine, che gli apparve immersa in un sonno profondo, le mani incrociate dietro la nuca - persino la bambina, che a quell’ora dormiva raggomitolata nel lettino bianco, e la governante dalle guance rubiconde con la voglia sulla tempia sinistra - , tutti si erano trasformati ai suoi occhi in figure assolutamente spettrali. E sebbene quella sensazione lo facesse un po’ inorridire, gli trasmetteva però, allo stesso tempo, una certa calma che sembrava liberarlo da ogni responsabilità, e addirittura svincolarlo da ogni rapporto umano». Ma anche questo senso di liberazione è illusorio poiché è solo espressione dell’intenso desiderio di Fridolin di uscire dalla contraddizione che inconsciamente ed intensamente lo opprime e ne fiacca la volontà allentando i suoi freni inibitori. Il monaco che si aggira impaurito ed eccitato fra le figure reali-surreali senza volto delle splendide donne nude e dei cavalieri in costumi variopinti, è ormai un ridicolo e grottesco burattino, destinato ad essere messo alla porta dalle braccia robuste di due misteriosi servitori. Il vanificarsi della cognizione del tempo e il cupìo dissolvi che ne segue scandiscono con spietata crudezza lo smarrimento del personaggio: «L’orologio della torre del municipio scoccò le sette e mezzo. D’altronde non importava che ora fosse; il tempo gli era completamente indifferente. Non provava interesse per nulla e per nessuno. Sentì una leggera compassione per se stesso. Molto fuggevolmente, non proprio come un proposito, gli venne l’idea di recarsi a una qualsiasi stazione, partire, non importava per dove, sparire per tutti coloro che lo avevano conosciuto, ricomparire in qualche luogo all’estero e incominciare una nuova vita, sotto spoglie diverse». Il calvario di Fridolin - e come non ricordare la sua crocifissione nel sogno di Albertine? - è lungo, e si concluderà soltanto con la presa di coscienza della contraddizione che ha segnato le sue avventure notturne alla ricerca di una qualsiasi violazione della fedeltà coniugale che potesse significare allo stesso tempo vendetta immediata e distacco da colei che aveva osato tradirlo, anche se solo nelle intenzioni! Ma l’immagine di Albertine, apparentemente rimossa, non lo ha abbandonato in nessun momento della sua disperata, quanto assurda corsa verso l’evasione erotica, e Fridolin se ne avvede proprio quando, nel tentativo di dare un senso alla sua umiliante notte di frustrazioni, vuole ad ogni costo svelare il mistero della bellissima suicida che si è sacrificata per lui: «che cercava {nella camera mortuaria}? Conosceva solo il suo corpo, il viso non l’aveva mai visto, ne aveva avuto solo un’immagine fugace la notte scorsa nell’attimo in cui aveva lasciato la sala da ballo o, per meglio dire, quando ne era stato cacciato. Eppure il non avere fino allora considerato quella circostanza derivava dal fatto che per tutto il tempo trascorso dal momento in cui aveva letto quella notizia sul giornale si era rappresentata la suicida, il cui volto gli era sconosciuto, con i lineamenti di Albertine e che, come si accorse solo ora rabbrividendo, aveva continuamente avuto davanti agli occhi l’immagine della moglie, identificandola con colei che cercava». La conclusiva discesa agli inferi di Fridolin, il suo passare incerto fra i cadaveri allineati sui tavoli di marmo alla luce delle fiammelle a gas nell’agghiacciante squallore della sala anatomica, non ha più quindi che un valore esorcizzante: a chiunque appartenga quel corpo enigmatico di donna che lo ha magicamente attratto, esso non rappresenta ormai altro che «il cadavere pallido della notte passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione». Ma le frenetiche e sconvolgenti avventure notturne hanno lasciato il segno; il personaggio che rientra a casa nel pieno della notte ha perduto anche quell’apparente sicurezza che aveva ostentato solo poche ore prima. La vista della mascherina che ha portato durante la festa nella misteriosa villa e che, trovata da Albertine, è stata da lei, significativamente, posta sul cuscino del marito, è sufficiente a provocare il crollo di Fridolin. I singhiozzi che lo scuotono sono tuttavia, questa volta, solo il segno di una débàcle fisica: caduta la maschera, dietro cui aveva creduto di poter celare le sue contraddizioni, riaffiora in lui la coscienza del suo reale rapporto con Albertine. È possibile allora una ripresa della vita in comune sulla base della reciproca comprensione, al riparo dalle oscure forze dell’istinto e del destino? «Non si può ipotecare il futuro». Il determinismo e lo scetticismo, che Freud giustamente vedeva in Schnitzler, lo hanno ancora una volta orientato nella Traumnovelle, che non segna pertanto alcuna svolta nella sua poetica “esistenziale” e l’amara, tragica tematica di opere contemporanee a posteriori come Spiel im Morgengrauen {Gioco all’alba, 1926}, o Therese. Chronik eines Fräuenlebens {Teresa. Cronaca di una vita di donna, 1927}, ampiamente lo confermano - , anche se il «vittorioso raggio di luce» che annuncia il nuovo giorno e il «chiaro riso di bambina dalla stanza accanto», sembrano aprire per un attimo alla speranza il cronista disincantato di un mondo in declino, un mondo sul quale «non veglia più alcun Dio», come dirà Heinrich Mann nel suo discorso commemorativo per la morte di Schnitzler nel 1931. FINITO DI STAMPARE NEL NOVEMBRE 1999 DALLA TECHNO MEDIA REFERENCE S.R.L. - MILANO. Stampato in Italia - Printed in Italy. 17/06/11 14:36:38